Fumetto di una persona in carrozzina che guarda delle scale corrucciata. C'è un cartello con scritto "Way In [freccia] Everyone welcome!".

Sul “sentirsi disabili”

Quand’è che una persona disabile “si sente disabile”? In che occasioni si sente una persona diversa, a parte, in qualche modo limitata? Chiariamoci, una persona disabile lo sa sempre di essere disabile, nel modo più o meno latente con cui una donna sa sempre di essere donna e un cinese sa sempre di essere cinese.

Ma quand’è che questa consapevolezza cessa di essere una constatazione neutrale sulla propria situazionee diventa invece un peso, un motivo quasi di oppressione che a volte arriva ad arrossarti le guance di strisciante vergogna o rabbia cocente? Cos’è che fa scattare il meccanismo per cui la parola “disabile” assume improvvisamente una connotazione negativa, ti si appiccicca addosso, ti arriva in faccia con la violenza di uno schiaffo?

Contrariamente a ciò che pensa spesso la gente, una persona disabile di solito non si sente tale quando è messa di fronte alle proprie limitazioni fisiche, bensì quando si confronta con alcune reazioni e comportamenti della società. Ebbene sì: io non mi sento “handicappata” quando penso che non posso camminare, ma quando mi trovo di fronte a uno scalino vertiginoso all’ingresso di un negozio. 

A chi non vive in prima persona la disabilità, o a chiunque non abbia familiari o amici stretti che siano disabili, può venir facile pensare che chi è in carrozzina percepisca più acutamente e consapevolmente la propria condizione di handicap quando si confronta con i propri limiti fisici, ad esempio quando vede dei “normodotati” fare qualcosa che lui/lei non può fare, come pattinare sul ghiaccio o andare sullo skateboard. O che magari una persona con poca forza muscolare si senta “disabile” quando non riesce, che so, a sollevare un libro pesante.

Niente di più sbagliato.

Questa concezione sembra essere la norma tra chi è estraneo alla disabilità, e penso che si basi sull’idea – inconsapevole ma radicata – che la disabilità sia qualcosa di sostanzialmente spaventoso e intollerabile. Ha le radici, credo, nell’idea che le persone disabili, in fondo, non accettano la propria disabilità. Perché del resto, come si fa ad accettare qualcosa che tutti i giorni media e libri “mainstream” ci presentano, chi esplicitamente e chi solo sottilmente, come inaccettabile? Cosa ci si può aspettare da una società in cui per scongiurare il problema degli incidenti stradali provocati dall’alcol vengono diffuse immagini come questa, dove si dice implicitamente che la morte è preferibile a una vita da “non camminante”? O dove il fatto che i  disabili di molti film (Million Dollar Baby, tanto per fare un esempio) scelgano di morire invece che vivere passa come una cosa perfettamente normale? (Per chi ancora non lo sapesse, la stragrande maggioranza dei disabili si sente offesa da scene simili).

Ma torniamo alla concezione di cui parlavo prima, l’idea che il disabile si sente disabile quando sperimenta i limiti imposti dal suo corpo. È qualcosa di molto diffuso, ben radicato nella testa di quasi ogni “normodotato” che non sia stato “educato” da un disabile.

Un classico esempio lo troviamo nel cinema. Il “topos” legato all’handicap che va per la maggiore sembra essere quello delle (presunte) gaffes del normodotato che dice al cieco “ci vediamo domani” o a una persona in carrozzina “ci incamminiamo verso casa” e subito dopo, imbarazzato, si pente di averlo detto. Questa convinzione vorrebbe che un disabile si senta a disagio di fronte all’esplicita menzione del suo handicap, come se il solo pensiero dovesse risultargli fastidioso. È chiaro che si tratta di un’idea che nasce da un punto di vista non solo superficiale, ma anche completamente estraneo alle problematiche dell’handicap. Non riesco mai a vedere questo tipo di scene senza rimanere basita. C’è davvero chi crede che un cieco o un disabile in carrozzina possa rimanerci male per cose simili?

Ebbene, per non lasciare adito a dubbi vi assicuro che no, i disabili non si offendono per questo genere di cose, non si sentono “disabili” per questo. E, giusto per essere chiari, un cieco non pensa alla propria disabilità ogni volta che sente la parola “vedere” (tanto più se è usata in senso figurato). Lo stesso vale per i sordi e l’espressione “ci sentiamo” e per i disabili motori e l’espressione “ci incamminiamo”.

Per quanto strano o riduttivo possa sembrare, a farci sentire disabili sono le barriere architettoniche, i tempi (e la complessità) della burocrazia, le discriminazioni, i trattamenti differenziali, i pregiudizi, gli stereotipi e la penuria di servizi.

Tutte cose che nulla hanno a che fare con le varie condizioni e patologie. Si tratta evidentemente di fattori esterni più che interni. 

Io (ma il discorso vale per la maggior parte delle persone disabili) non mi sento “disabile” quando a lezione mi scivola il braccio dal tavolo e devo chiedere a un compagno di rimettermelo su, ma piuttosto quando ad uno spettacolo qualcuno mi si piazza davanti, impedendomi la visuale. Scegliendo, tra tutti i posti in cui potrebbe mettersi, di stanziarsi proprio di fronte all’unica persona seduta del locale.

Non mi sento disabile quando dopo due ore che sono seduta inizio a sentire un leggero mal di schiena e ho bisogno di stare per qualche minuto in posizione reclinata, ma quando faccio domanda per la Vita Indipendente e mi sento rispondere che devo aspettare dei mesi.

Non mi sento disabile quando, al momento di applaudire, gli altri producono un rumore scrosciante ed io, se anche mi sforzo di battere le mani, non emetto un suono neanche a morire, ma quando le persone si rivolgono alla mia assistente come se io non esistessi.

Non mi sento disabile quando, ad un concerto, tutti i miei amici ballano scatenati e io posso al massimo muovere la testa e le braccia a ritmo di musica, ma quando un mio coetaneo ha qualche riserva a mostrarmi una vignetta “spinta”. 

[Maria Chiara]

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