Quattro foto di bambini con e senza disabilità

Sulle scuole speciali e sui miei sprazzi di patriottismo

Ho sempre pensato che il patriottismo sia un sentimento che lascia un po’ il tempo che trova, specie se viene enfatizzato e non ridimensionato da un più sano sentirsi “cittadini del mondo”.

Eppure, c’è una cosa che mi fa provare qualcosa di molto simile al patriottismo più sfegatato, ed è il modo in cui viene affrontata in Italia la questione scuola e disabilità. Questo sì, mi fa provare inaspettati impeti di amore per l’Italia che sorprendono innanzitutto me stessa.

L’Italia è il paese europeo più avanzato e moderno per quanto riguarda l’inclusione  degli studenti disabili nelle scuole. Da noi il bambino autistico, quello in carrozzina, il bambino down stanno tutti nelle stesse classi con gli altri bambini. Praticamente tutti quelli che sono andati a scuola dagli anni ‘80 in poi hanno avuto almeno un compagno disabile, se non nella stessa classe nella stessa scuola.  Dovrebbe essere una cosa quasi scontata, quasi banale, ma appena si esce dall’’Italia – e anche se si guarda alla realtà del sistema scolastico italiano fino alla prima metà degli anni ’60 – si scopre che scontato non lo è affatto.

In paesi come Austria, Germania, Francia e Inghilterra le scuole speciali o differenziali per disabili sono parte integrante dell’offerta formativa, sono parte del vissuto di tutti i giorni, vi sono iscritti e continuano ad iscriversi bambini e ragazzi con diverse disabilità, sia fisiche che mentali, e hanno la loro brava fetta di sostenitori. È normale che esistano, ad esempio, scuole dedicate esclusivamente a studenti con difficoltà motorie, patologie che non compromettono affatto la capacità di apprendimento; proliferano le scuole per studenti con sindrome di Down, autismo, disprassia e difficoltà di linguaggio.

Alle famiglie si offre la possibilità di scegliere tra scuole speciali e normali, e anche se alcuni studenti disabili (soprattutto quelli motori) accedono ormai alle scuole mainstream, ce n’é una consistente fetta che frequenta istituti speciali. In ogni caso, per quello che mi riguarda è abbastanza scioccante anche solo sapere che se fossi nata, ad esempio, in Francia, i miei si sarebbero se non altro posti il problema della scuola in cui mandarmi, e sarebbero stati incoraggiati da molti a scegliere una scuola speciale.

Spagna, Portogallo, Grecia, Svezia, Norvegia, Islanda e Cipro (dunque i paesi del sud e i civilissimi paesi scandinavi) sono i paesi che, come l’Italia, puntano all’inclusione completa, ma l’Italia rimane comunque il primo paese europeo ad aver messo in pratica concretamente buone prassi di inclusione, e all’interno del dibattito e del discorso  internazionale su questo tema il sistema italiano viene guardato con ammirazione e come modello. Svizzera e Belgio, all’estremo opposto, adottano invece quasi esclusivamente il sistema delle scuole speciali per qualunque tipo di handicap.

Parlando in generale, dunque, in Europa centro-settentrionale le scuole differenziali sono la normalità. Le motivazioni sono varie: per quanto riguarda le disabilità psichiche, le ragioni che la fanno da padrone sono due: primo, i bambini con problemi disturberebbero gli altri studenti, e secondo, gli stessi bambini avrebbero più possibilità di imparare in un ambiente specializzato, fatto su misura per le loro necessità di apprendimento.

Per i disabili fisici la questione è puramente di carattere organizzativo-logistico: l’idea di raggruppare i ragazzi con problemi fisici in un unico istituto nasce dal concetto di massimizzare le risorse: si creano dunque strutture che – dicono – vengono incontro a tutte le esigenze degli studenti con bisogni particolari. Ai ragazzi viene garantita una completa assenza di barriere architettoniche, un’assistenza specializzata, un trasporto scolastico accessibile tramite pulmini speciali, spesso perfino sessioni di fisioterapia e assistenza medica dentro la scuola, attività ludiche ed extra curriculari modellate sulle varie disabilità, organizzazione di sport in carrozzina eccetera.

Si tratta di ambienti studiati ad hoc, in un incastro apparentemente perfetto di tante figure, un team di tecnici ed esperti che ruotano intorno al singolo studente. Nelle presentazioni che si trovano sui siti di queste scuole speciali viene enfatizzata l’offerta di un ambiente il più confortevole possibile, di un servizio a tutto tondo per far fronte a ogni possibile esigenza dello studente disabile. Il ragazzo che frequenta quelle scuole non si troverà mai di fronte ad un gradino, un ascensore troppo stretto, ore di assistenza insufficienti.

Il piccolo dettaglio per cui passerà anni sui banchi di scuola senza avere un solo compagno normodotato passa però per insignificante, e la cosa dovrebbe destare una certa preoccupazione. Io sono convinta che scuole simili abbiano effetti abbastanza pericolosi sia per i bambini disabili che per i non disabili. Il bambino in carrozzina che ha per compagni solo persone con problemi fisici simili ai suoi avvertirà la sua diversità come qualcosa di negativo ogni volta che uscirà dall’ambiente, se vogliamo, protetto delle mura scolastiche.

E tutto questo in un’età – sei, sette anni – in cui i bambini disabili inseriti in una classe “normale” (lo so per esperienza) quasi non sanno di essere disabili. O almeno, non con la connotazione totalizzante con cui il termine viene usato comunemente dagli adulti. Quando ero piccola, infatti, il mio essere in carrozzina veniva avvertito dagli altri bambini come una semplice caratteristica che non arrivava a sovrapporsi e coincidere con la personalità come avviene in certi ambienti di adulti, e diventava anzi occasione di arricchimento in quel modo inconsapevole, sincero e spontaneamente inclusivo che sanno avere solo i bambini delle elementari.

Dietro l’idea delle scuole speciali invece c’é sempre un sottofondo non detto che è l’idea antica e radicata di tenere i bambini “normali” al riparo, quasi, dal contatto con disabili mentali e fisici. Non c’é niente di più sbagliato, dato che la scuola, un vero e proprio micro-cosmo, è la prima società “complessa” con cui si confrontano i bambini, una micro-società che oltre alle nozioni insegna la vita.

L’amicizia con i bambini disabili insegna ai compagni la cultura della solidarietà e a diventare adulti inclusivi verso ogni tipo di diversità, così come l’amicizia dei normodotati è fondamentale per i disabili, perché permette loro di crescere equilibrati e insieme insofferenti ad ogni ghettizzazione, e con piena coscienza dei loro diritti, nonché di esplorare territori che altrimenti sarebbero loro preclusi.

Mia sorella che nell’ora di ginnastica si fa trainare la carrozzina per tutta la palestra aggrappata alla mano di un’amica, o una mia compagna che mette “fisicamente” in pratica scherzi che abbiamo architettato insieme sono solo due dei ricordi che simboleggiano la mia idea di educazione inclusiva, e non sarebbero possibili in una scuola speciale. Le partite di palla avvelenata alle elementari, con le regole adattate – escogitate insieme dal maestro e dalla classe per farmi partecipare al massimo – sono l’esempio concreto di come, con un po’ di fantasia, tutto si possa rendere fruibile a tutti, e di come la presenza di un handicap sviluppi la creatività dell’intero gruppo classe.

Potrei citare altri mille esempi: due ragazzine che alla scuola di Elena tutti i giorni, infallibilmente, con spontaneità e buonumore aiutano un ragazzo con sindrome di Down a scendere le scale, o i bambini dell’asilo che fanno a gara per spingermi la carrozzina. Le amiche tredicenni di Elena che, tenendola in braccio, guadano un ruscello, gli amici adolescenti che, a turno, mi trasportano sollevando la carrozzina sui terreni più accidentati. L’indignazione delle mie amiche in quarta elementare che, di fronte ad un adulto inebetito che ha appena dato per scontato che io non parlo e non capisco, rispondono per le rime sotto il mio sguardo divertito, con quell’amore ardente per la giustizia che rende tutti i bambini dei piccoli donchisciotte.

Il primo gruppo di amici un bambino se li fa a scuola, primo canale di socializzazione, e per un ragazzino in carrozzina avere come compagni solo distrofici o spastici come lui è quantomeno alienante. Andando più avanti negli anni, per fare un esempio tra i tanti, le prime sigarette da adolescente te le procura l’amico normodotato, cosi come è lui che ti aiuta a nasconderne poi le temutissime tracce. Queste possibilità i ragazzi delle scuole speciali non le hanno, o ne hanno molte meno. Allo stesso modo i ragazzi “normali” che non hanno disabili in classe o comunque amici disabili si perdono occasioni importantissime per la loro educazione e crescita.

Di fronte agli innegabili vantaggi di un’educazione inclusiva, di fronte a tutta questa bellezza, vale la pena affrontare le difficoltà che organizzare una scuola per tutti comporta. Gli sforzi di creatività degli insegnanti che devono inventarsi ogni giorno, la versatilità estrema richiesta agli insegnanti di sostegno, il doversi spostare in un’altra aula per alcune attività speciali, l’impegno e la fatica dei genitori, le delusioni dovute alla presunta e famosa “mancanza di fondi” e persino i compromessi – che andrebbero evitati a tutti i costi ma che a volte non si possono evitare – compongono un puzzle bello e complesso che ride in faccia alla triste impeccabilità delle scuole speciali.

Nella pratica l’Italia ha molte mancanze per come viene gestita la disabilità a scuola. Il mio è un patriottismo lucido, non sto dicendo che la situazione sia perfetta. So di bambini costretti a fare un orario scolastico ridotto perché non viene garantito il sostegno per tutte le ore necessarie; di madri e padri che prendono permessi dal lavoro per portare in bagno il proprio figlio perché non c’é nessun altro disposto a farlo; di ragazzi che per due volte ogni benedetto giorno devono piegare la carrozzina e salire in braccio perché l’ascensore della scuola è troppo stretto e non a norma; di scalini illegali e di rampe promesse e mai costruite; di comuni che non finanziano l’assistenza per i viaggi d’istruzione, come se le gite non facessero parte delle attività curricolari. So tutto questo, e provo vergogna e rancore per la solita arretratezza e mala organizzazione italiana. Eppure tra i due mali – una scuola differenziale ma efficientissima e una scuola che accoglie tutti ma gestita in modo raffazzonato –  continuo a scegliere con decisione il secondo.

A costo di sembrare idealista, continuo a pensare che includere tutti nella scuola sia segno di alta civiltà. A questa efficienza nordica un po’ disumana, che classifica, cataloga, separa, organizza, all’idea che siano necessari sempre e comunque dei “tecnici” per avere a che fare con la disabilità, preferisco l’idea italiana che “prova” a far andare a scuola tutti insieme a tutti i costi, specchio forse di quell’”arte di arrangiarsi” che ci caratterizza. Puntando però a un terzo modello che ne coniughi i vantaggi.

È imprescindibile, se vogliamo costruire una società migliore e meno abilista e razzista, fare almeno il primo passo e mettere nella stessa classe bambini il più “diversi” possibile fra loro per provenienza sociale e geografica, appartenenza culturale e religiosa e condizione fisica o mentale: il resto possiamo anche lasciarlo fare a loro.

[Maria Chiara]

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