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Libertà di scelta

L’Italia non ha ancora una legge sull’eutanasia. Il nostro è un paese in ritardo su tante cose.

Ma questo non è un post sull’eutanasia.

Non parlerò della necessità di regolamentare la questione. Né della fiera delle banalità sui social: dall’autocompiacimento di alcuni tra quelli che dicono “io sono per la libertà di scelta” ai giudizi irrispettosi e non richiesti di chi pensa che dj Fabo, uno fra tanti, abbia preferito una presunta “via più facile”.

Parlerò di un problema di concetto e di comunicazione quando si parla di disabilità nel discorso pubblico, dato che il discorso sull’eutanasia è strettamente legato alla concezione della disabilità.

Il problema è che c’è una disinformazione diffusa su cosa sia la disabilità: la nostra società promuove un’idea negativa dell’essere disabili, in particolare del non essere autosufficienti.

Molti, nel parlare di eutanasia, esprimono un altro tipo di giudizi non richiesti: quelli sulla vita di chi è disabile. Leggo reazioni come “è un uomo inchiodato alle atroci sofferenze di una sedia a rotelle”, “la cosa terribile è essere dipendente dall’aiuto degli altri per tutta la vita”, “quella di chi non è autosufficiente è a tutti gli effetti una non-vita”, e “io preferirei morire piuttosto che essere in carrozzina”.

Una costante che ricorre negli argomenti “pro” eutanasia rimane il disgusto per una vita in cui dipendi dagli altri, vista come il non plus ultra della sofferenza, e ci si riempie la bocca con parole come “dignità”, secondo l’idea per cui essere dipendente da altri non è dignitoso.

“Dignità” è una delle parole chiave dei sostenitori dell’eutanasia, usata come un vero e proprio slogan. L’idea sarebbe che la malattia e la non autosufficienza ti tolgono dignità, ma è un’idea spesso basata sul giudizio di chi è estraneo alla questione, e non sull’esperienza dei diretti interessati, i disabili.

Nell’opinione pubblica le vite dei disabili sono talmente svuotate di valore, la qualità della loro vita è talmente sottovalutata, e una rappresentazione realistica della disabilità è così scarsa che idee come questa vengono normalizzate.

La verità è che lo stato di salute di una persona, mentale o fisico, non ha niente a che vedere con la dignità.

C’è l’idea che la vita di chi è in carrozzina e dipende dagli assistenti abbia meno valore, che sia inerentemente meno desiderabile. Questo è problematico, offensivo e retrogrado.

Le parole hanno conseguenze: questo modo di parlare della disabilità perpetua le pratiche politiche per cui l’assistenza personale viene elargita (se viene elargita) a mo’ di elemosina. C’è dietro lo stesso sostrato culturale per cui i negozianti non hanno particolare interesse a mettere delle rampe, e per cui se sul mio curriculum si vede che sono disabile è probabile che un datore di lavoro mi scarti a priori.

Statisticamente, a scegliere l’eutanasia sono in maggioranza persone che hanno vissuto la transizione dal corpo abile a quello disabile e hanno problemi complessi: nel caso di Fabiano Antoniani c’erano anche la cecità, problemi a comunicare e dolori cronici.

Ma pochi mesi fa una ragazza di quattordici anni, Jerika Bolen, in carrozzina dalla nascita, ha ottenuto negli Stati Uniti il diritto a morire, supportata dai propri genitori e amici nonché dalla stampa internazionale, che non ha esitato a scrivere falsità sul suo handicap, ingigantendolo e condendolo di tragedia ad uso e consumo dei lettori inconsapevoli.

Non è un caso isolato. Sono sempre più numerosi i casi di eutanasia di persone non terminali, ma semplicemente in carrozzina. Si vede bene come siano applicati due pesi e due misure: se si fosse suicidata una ragazza con un corpo tipico, ci sarebbe stato un lutto collettivo e si sarebbero ricercate le cause del suo disagio nella società, magari nel bullismo, nella famiglia o in una condizione di malessere psicologico.

Nel caso di Jerika, la sua disabilità è stata una condizione sufficiente perché i “tuttologi del web” commentassero pacifici, banalizzando la questione semplicemente invocando la libertà di scelta. La disabilità di questa ragazza è bastata, a quanto pare, ad appiattire la reazione emotiva di molti. Quei molti che, senza sapere nulla nel concreto delle sue capacità fisiche (non distanti dalle mie), commentavano che anche loro, nei suoi panni, avrebbero fatto lo stesso.

È evidente che se la scelta di morte di una ragazza in carrozzina viene normalizzata soltanto perché è in carrozzina c’è un problema di ignoranza sull’essere disabili. Molti pensano che si tratti del massimo dell’indesiderabilità, e non vanno oltre a quello. Non si approfondisce e non si chiede il parere di altri appartenenti alla community dei disabili, magari degli attivisti. Perché sentire dei pareri diversi è impegnativo. Mettersi in discussione, e magari rischiare di non avere, per una volta, un’opinione granitica, è impegnativo.

Non posso fare a meno di chiedermi quanto abbiano influito, nella scelta di Jerika, la becera rappresentazione della disabilità nei media, la mancanza di opportunità, le discriminazioni sociali, i tagli al welfare. Risposta: tanto, tantissimo, troppo.

Ma raramente ci si sofferma sull’aspetto sociale quando si parla di eutanasia: è ancora troppo pervasiva l’idea che la disabilita sia una tragedia personale o un fatto privato, da vedere solo nel suo aspetto medico, e non una responsabilità pubblica.

Spesso la “libertà di scelta” resta semplicemente uno slogan, e non un’opinione informata e ponderata. Per far sì che lo diventi è necessaria una più ampia riflessione sulla carenza delle politiche sociali.

Per i disabili, una categoria con pochi diritti e rappresentata poco o malamente, la linea tra la libertà di scelta e il sentirsi invece spinti verso il suicidio assistito è particolarmente sfumata.

Le parole hanno un peso, lo sappiamo. Quindi chiedo ad alcuni non disabili che prendono posizione sul diritto all’eutanasia di impegnarsi un filino di più e, nel loro dichiararsi progressisti e paladini dei diritti, evitare di insultare la mia vita. Perché quello che fanno è dire, fra le righe ma neanche troppo, che la mia vita non è poi così degna di essere vissuta.

Forse è arrivata l’ora di spiegare ciò che è ovvio per gran parte della community disabile, ma evidentemente non per tutti: la vita dei disabili non ha meno valore, non è più brutta, non fa schifo. Un concetto semplice, ma sembra che molti non l’abbiano ancora metabolizzato.

Eppure l’idea che la mia è una non vita è più diffusa di quello che si pensi. È l’idea, pensate un po’, che sta dietro alle scuole senza ascensori, è l’idea che sta dietro all’apatia politica che considera accettabile la segregazione, il fatto che il trasporto pubblico sia negato, nel 2017, a una certa categoria di cittadini. È l’idea che sta dietro al mancato investimento nel sociale, che considera accettabile il fatto che io viva in una RSA. È il motivo per cui molti film conosciuti sui disabili parlano di disabili che scelgono la morte, e non dimentichiamoci che il concetto di “vite indegne di essere vissute” è stato il leit-motif dietro l’Aktion T4.

A chi professa con tanta certezza che la vita in carrozzina è una non-vita vorrei dire di essere un po’ più indecisi, di coltivare un po’ di sana insicurezza, che a me le verità in bianco e nero hanno sempre fatto paura. Concedetevi, vi prego, per il benessere del mio fegato e di quello di tanti altri, il beneficio del dubbio. Andate in giro, uscite dalla vostra comfort zone, incontrateli davvero i disabili con cui vi riempite tanto la bocca, e magari vi cancellerete quell’idea malsana che vi fa vedere i disabili come “altro” da voi.

Ho letto più volte in giro che dj Fabo, scegliendo l’eutanasia, sì è aggrappato all’ultimo lembo di “dignità”. Io credo invece che lui si sia aggrappato all’ultimo lembo di libertà; parlare di dignità è paternalistico, stucchevole ed irrispettoso nei confronti di chi vive condizioni simili.

Viviamo in una società dove si pensa che essere disabili sia triste. Espressioni tipo “se fossi in lui/lei mi ucciderei”, “ma che razza di vita è la sua”, non sono solo dette riguardo a condizioni “complesse” come quella di dj Fabo, ma anche riguardo a chi è in carrozzina.

Viviamo in una società dove spesso non si sa neanche che esista il concetto di disability pride: avere mente o corpo non conforme agli standard (o se è per questo avere qualsiasi “diversità” rispetto alla norma), ti incoraggia a sviluppare punti di vista divergenti, autoironia e anticonformismo.

Ma che ne sanno, quelli che si riempiono la bocca con concetti come il fardello del dipendere dagli altri, della validità e della bellezza di tutte le vite? Ma che ne sanno del rapporto unico e irripetibile che si viene a creare quando incontri l’assistente giusto, o della sensazione di libertà che si ha con una carrozzina?

Che ne sanno del fatto che i miei momenti di massima gioia e di massima tristezza, durante la mia vita, non hanno avuto a che fare con la disabilità?

Da chi dice, giustamente, che non bisogna giudicare il dolore degli altri, mi aspetto anche che non giudichi la qualità della vita degli altri.

Proviamo a parlare di diritto all’eutanasia senza denigrare la disabilità come condizione: il supporto all’eutanasia e un discorso realistico e rispettoso sulla disabilità non si devono escludere a vicenda.

Una cosa che mi amareggia particolarmente è il fatto che, sul tema dell’assistenza personale e della Vita Indipendente – un tema urgente, che possiamo definire senza esagerare davvero una questione di vita o di morte), non c’è tutto il riscaldamento dell’opinione pubblica che c’è sull’eutanasia.

Non mi interessa fare una gerarchia dei diritti. Dovrebbe però darci a tutti da pensare il fatto che, quando si tratta di disabili, ci sia più interesse nel tutelarne la libertà alla morte che la libertà alla vita.

Pensiamo tutti di più alle parole che usiamo. Evitiamo le “risposte facili”. Proviamo a costruire un mondo in cui, a quattordici anni, ragazzine come Jerika non scelgono l’eutanasia. Facciamo sì che la scelta ci sia veramente.

[Maria Chiara]

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