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Telethon: com’è iniziato

Jerry Lewis è morto l’estate scorsa a 91 anni. È stato, tra le altre cose, ideatore e presentatore di Telethon in America, grazie al quale sono stati raccolti miliardi di dollari per la ricerca sulla distrofia muscolare. Telethon poi si è esteso in tanti altri paesi e si è allargato anche ad altre malattie rare.

Il programma condotto da Lewis dal 1966 al 2014 è conosciuto per essere stato pieno di lacrime, oggettificazione, spettacolarizzazione, basse aspettative nei confronti delle persone disabili e infantilizzazione.

Uno show tipico prevedeva le storie strappalacrime di bambini in carrozzina: le persone disabili adulte erano quasi assenti. Le diagnosi erano rese più tragiche di quanto fossero in realtà, e ci sono tante testimonianze di persone che, quando erano bambini, hanno partecipato a servizi in cui si dichiaravano davanti a loro prognosi eccessivamente infauste. Le trasmissioni includevano poi immancabilmente le lacrime dei genitori davanti al pubblico.

Questo approccio comunicativo esplicitamente pietistico provocò proteste da parte di molti attivisti disabili, e la reazione di Lewis nei confronti delle critiche ricevute fu particolarmente dura. Questa è solo una delle cose controverse che disse a proposito del risentimento degli attivisti: “Compassione? Se non volete essere compatiti perché siete dei disabili in carrozzina, state a casa vostra!” (CBS Sunday Morning, 20 maggio 2001).

La modalità di raccolta fondi di Telethon si basava su una concezione della disabilità totalmente tragica e medicalizzata. “Tanto vale mettersi una pistola in bocca!” è un commento di Lewis fatto durante il Telethon MDA del 1991, a proposito di una persona a cui era stata diagnosticata la SLA.

Senza mettere in dubbio l’importanza dell’intento finale di Telethon, cioè raccogliere fondi per la ricerca – e Telethon è stato anche uno dei primi a sensibilizzare sulle malattie rare, prima che andasse “di moda” – il tipo di comunicazione utilizzato fino a pochissimo tempo fa è estremamente problematico e con conseguenze terribili sulla concezione delle persone disabili nella società. Per molti infatti Telethon era l’unica grande vetrina in cui si veniva a conoscenza di certe disabilità.

Lo stile comunicativo di Lewis era un prodotto del suo tempo? Senza dubbio: rappresentazioni positive e sane della disabilità scarseggiano ai giorni nostri, figuriamoci negli anni tra i Settanta e i Duemila. Purtroppo però ormai il danno a livello culturale è stato fatto.

È solamente colpa di Lewis? È stato lui a creare l’abilismo? Ovviamente no. Ma in quanto persona con una grande popolarità, vi ha certamente contribuito in maniera significativa.

Lewis ha perpetrato idee dannose sulla disabilità, presentandosi allo stesso tempo come il “salvatore delle persone disabili” (un po’ sul modello del “white savior”), cosa di cui la community disabile non sente certo il bisogno.

I racconti dei bambini testimonial (ora adulti) che parteciparono agli show (o meglio, furono fatti partecipare dai propri genitori) riferiscono quanto fosse deleterio e disorientante per molti di loro essere visti dai propri compagni di scuola in queste trasmissioni. Il fatto che molti vedessero amplificata la loro disabilità in tv non aiutava nelle amicizie, così come non aiutava apparire in tv insieme ad estranei che dicevano a tutti di dispiacersi per loro. A molti bambini venivano fatti video a casa propria mentre venivano assistiti dai genitori per le azioni quotidiane, si toglievano i busti ortopedici, e spesso rimanevano addirittura in mutande. Oppure mentre giocavano in giardino con il cane, con della musica malinconica in sottofondo che faceva sembrare la scena più “commovente” rispetto a quella di qualunque altro bambino che gioca col cane in cortile. Molti di loro riferiscono sentimenti di odio e di vergogna nei confronti di queste esperienze.

Molti attivisti chiesero a Lewis di parlare delle persone disabili con rispetto invece che con pietismo. Gli chiesero di dare più spazio sugli schermi alle persone disabili adulte. Gli chiesero di portare l’attenzione anche sulle barriere sociali che rendono difficile la vita quotidiana, che potrebbero essere superate se lo si volesse. Ma Jerry Lewis non era interessato.

Continuò fino all’ultimo a dire cose particolarmente abiliste, come nell’articolo “Se avessi la distrofia muscolare”, pubblicato su Parade Magazine il 2 September 1990, che suscitò molta indignazione (nei circoli degli attivisti disabili, naturalmente, non a livello di opinione pubblica).

“Quando rifletto e penso un po’ più razionalmente, mi rendo conto che la mia è una vita a metà, quindi devo imparare a fare le cose a metà. Devo solo imparare a cercare di essere bravo ad essere una mezza persona”.

E ancora:

“E che dire di quelli che non hanno l’uso delle mani? Per loro si aggiunge la non dignità di farsi vestire, farsi nutrire e tutte quelle cose che non dovrebbero farsi fare se solo avessero l’uso delle proprie mani”.

Durante il Telethon MDA del 1992 Lewis disse, a proposito dei “suoi bambini”:

“Non potranno mai lavorare. Non possono fare nulla. Sono stati attaccati da un assassino malvagio. Vi imploro, per la loro sopravvivenza.”

I tempi sono cambiati e c’è stata un’evoluzione nel linguaggio, ma è evidente che gli strascichi sono rimasti fino a pochissimi anni fa, e ancora restano delle tracce nei Telethon odierni.

Ora la comunicazione di Telethon è migliorata, ma è fondamentale ricordare come tutto è iniziato, per poterne mantenere le distanze e non rifare gli stessi errori. Soprattutto, per evitare a tutti i costi di deumanizzare le persone.

Dopo quarant’anni di lavoro di Jerry Lewis, la sua eredità e il suo lascito sono ben presenti ancora oggi: basti pensare a quanto viene abusata la parola “indignitoso” a proposito delle vite delle persone disabili, e a quanti con estrema leggerezza – e senza conoscere persone disabili – dicono che preferirebbero essere morti piuttosto che essere in carrozzina.

Basti pensare ai perfetti sconosciuti che ci fermano per strada e ci compatiscono e ci dicono che sperano che troviamo una cura.

Basti pensare a quanti si complimentano per il mio coraggio semplicemente perché andando a fare la spesa esco dai canoni di quello che loro si aspettano da una ragazza in carrozzina.

Basti pensare a quante persone in carrozzina non sono oltraggiate da un certo tipo di linguaggio di alcune raccolte fondi: sostengono che il fine giustifica i mezzi, ma questo mi rattrista. È come se si fossero talmente abituati alla propria gabbia da finire per accettarla e basta.

È assolutamente possibile supportare una categoria di persone e raccogliere fondi senza degradare ed umiliare. Altrimenti non la si supporta davvero.

[Maria Chiara]

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