Avere brave assistenti personali è una figata (parlo al femminile perché ho avuto per la maggior parte assistenti donne, ovviamente NON perché questo è un lavoro “femminile”).
È semplicemente una figata, in particolare in una società che di solito non ti considera molto come persona disabile: ciao locali inaccessibili, ciao persone abiliste, ciao burocrazia per cui il tuo tempo non vale nulla.
È fantastico avere vicine persone il cui lavoro è in pratica essere attente alle tue necessità, persone specializzate nelle tue preferenze, con cui tocchi con mano che il consenso non è affatto cosa vaga ma deve essere sempre la priorità. E poi lo applichi a tutti gli aspetti della vita, come bonus.
Avere bisogno di assistenza personale – e avere assistenti brave – ti fa capire quello che ti serve e ti insegna a formularlo: dall’altra parte ci devono essere persone che mettono in discussione le proprie convinzioni maturate in una società abilista.
Con le brave assistenti c’è una complicità peculiare a questo tipo di relazione. C’è la certezza che dedicheranno impegno al lavoro, che agiranno nel tuo interesse – col tuo comfort al primo posto – e che anche le piccole cose non verranno trascurate. La certezza di poterci contare.
E no, non servono “persone speciali” per fare l’assistente personale. Che chi fa assistenza abbia chissà che motivazione nobile o fuori dal normale è un’idea falsa e tossica: nasce dalla svalutazione delle persone disabili (e quindi di ogni lavoro a contatto con loro) e avalla una diffusa bassa qualità dell’assistenza.
Servono etica, impegno e capacità di lavorare a contatto con altre persone.
Dovrebbe essere questa la normalità. Anormale è l’altro tipo di assistenti, che – in buona parte a causa dell’abilismo – prevarica sul datore di lavoro disabile (visto come vulnerabile e meno credibile a livello sociale) o comunque offre un servizio scadente.
[Elena]