M. Chiara sullo sfondo del centro storico. Sorride e indossa una t-shirt fucsia, shorts bianchi e Converse tie-dye.

Disability Pride è provare a vivere rilassati

Dopo giugno che è il mese del Pride LGBT+, luglio è il mese del Disability Pride.

A volte è difficile far capire cos’è. Che Pride c’è ad essere disabili? mi sento dire, come se fosse un controsenso ovvio.

Il problema nel farlo capire è che ci sono precise idee su come devi essere disabile in questa società: vergognandoti e sentendoti in colpa.

Il Disability Pride, come ogni altro Pride, nasce primariamente dalle relazioni con le altre persone marginalizzate (in questo caso le altre persone disabili). Dalla complicità, dalle alleanze, dalle idee che nascono nel confronto con altri, insieme a cui si scoprono da una parte gli abissi fino a cui possono spingersi la segregazione e la disumanizzazione, dall’altra dei modi creativi e geniali di fare le cose e in generale di esistere.

Il Pride per me è non odiare il mio corpo, anche se c’è questa aspettativa. È rifiutarmi di “compensare” per la mia disabilità e di mostrarmi più brillante e simpatichella della media per “mettere a loro agio” gli altri. Soprattutto, è amare profondamente i miei amici disabili, quando siamo incoraggiati a evitare la compagnia delle altre “persone come noi”.

Di base, è anche un banale (ma non così banale) fregarsene del giudizio altrui. È sapere che viviamo in una società in cui a volte la felicità in una persona disabile è guardata con occhi spalancati, stupiti, sospettosi o ammirati e lacrimosi. E fregarsene.

In fondo il Pride è anche provare a vivere rilassati quando intorno tutto ci spinge a stare sempre sull’attenti.

[M. Chiara]

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