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Il binomio “supereroi-poverini” nei media

Le persone disabili nei media sono persone dalla vita tragica oppure eroi. Strazianti o straordinari.

Chiaramente ci sono anche rappresentazioni più realistiche, ma tendono ad essere maggiormente presenti questi due poli: storie di “supereroi” per suscitare stupore, storie di “poverini” per suscitare compatimento.

Sui giornali, in TV, al cinema o sui social le rappresentazioni che non si rifanno in qualche modo a questi due “modelli” sono decisamente in minoranza. Ci sono delle cause dietro all’esistenza di questi due estremi.

Per quanto riguarda il pietismo, ha sicuramente fatto la sua parte un certo stile di narrazione utilizzato dalle associazioni per raccogliere fondi per la ricerca o comunque legate alla disabilità.

L’eredità di Jerry Lewis, fondatore di Telethon, per dirne una. Molte grosse organizzazioni hanno storicamente investito sul pietismo, e questo ha condizionato tantissimo la rappresentazione delle persone disabili. Solo recentemente le associazioni hanno iniziato a sperimentare storytelling diversi, in cui non si svalutano le persone disabili.

Per far donare, molti inizialmente hanno scelto la narrativa più semplice e immediata, quella che arriva prima: ritrarre le persone in modo appiattito e semplicistico, in molti casi partendo da una visione tragica.

Impostare un discorso sui diritti e sulla necessità di far avanzare la ricerca senza sminuire il valore della vita delle persone disabili era apparentemente troppo complesso, dunque si è scelto di buttare giù le persone. Il messaggio che passava, e la cui eredità ritroviamo oggi ovunque sui media, è che la disabilità è incompatibile con una vita felice.

E così, quando sui giornali si parla di una persona disabile, il “poverino” è sempre in agguato. Si rende chiaro con alcune espressioni che si sta parlando di una categoria sfigata, che sì, insomma, la disabilità è tragica.

Anche per quanto riguarda l’idea di eroismo che circonda la disabilità, il motivo della sua esistenza è semplice: un certo tipo di giornalismo tende a ingigantire le notizie, a presentarle nel modo più spettacolare possibile. A fare il resto ci pensano le basse aspettative sulle persone disabili.

E allora ecco che vengono raccontate storie mirabolanti di persone disabili che sono “più abili di molti abili”. Persone disabili che hanno successi in campo sportivo, musicale o in altri ambiti vengono esaltate in modi che mai verrebbero utilizzati per le persone non disabili, con un vero abuso della parola “supereroe”.

Anche altre espressioni con poco senso come “superare i propri limiti”, “andare oltre la disabilità”, vengono associate spesso a Bebe Vio, Alex Zanardi o Ezio Bosso, così come a persone disabili “ordinarie” e non famose. Come se la disabilità in sé fosse un ostacolo da superare e non lo fossero invece le barriere imposte dall’esterno, come se non esistesse una discriminazione strutturale. E in un certo senso – facendo passare il messaggio che è tutta questione di impegno e volontà – biasimando le persone disabili che non riescono ad ottenere determinati risultati.

Lo stigma sulla disabilità è talmente forte che si “concede” più umanizzazione a una persona disabile che raggiunge dei risultati. Chi è disabile deve costantemente dimostrare le sue capacità per essere considerato degno del rispetto di base, se non lo fa c’è automaticamente il pietismo.

Ognuno dei due poli di questo appiattimento è estremamente dannoso. Sia il pietismo, che rinforza l’idea di disabilità come cosa per cui commuoversi e di cui rattristarsi, sia la tendenza a “eroicizzare” le persone disabili che raggiungono certi obiettivi e che più si avvicinano all’idea standard di “normalità”.

Intanto, in una rappresentazione così lontana dalla realtà e alla continua ricerca di sentimenti facili, rimangono fuori le vite reali delle persone disabili.

Intanto, ogni volta che si parla con pietismo o di eroismo, si aggiunge qualche mattone al muro che separa chi è “normale” da chi non lo è

[Maria Chiara]

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