Questa gnoma sul triciclo sono io da piccola. Della mia infanzia sono grata per molti motivi. Tra le altre cose, come adulta disabile sono grata per il fatto che, negli analogici anni ’90-2000, i miei genitori non si siano messi a scrivere un blog su di me e la mia disabilità.
Lungi da me dire ‘o tempora o mores’, perché Internet è utilissimo e importante. Ma ora ci sono blog su blog gestiti da genitori e incentrati sui propri figli disabili, ed è davvero difficile gestire uno spazio online sull’argomento in modo etico, rispettando il consenso e la privacy del bambino.
Vediamo di routine post intimi e vulnerabili, dove la vulnerabilità mostrata è quella del bambino, che però, molto palesemente, non ha prestato il suo consenso.
Dal salotto di casa nostra, assistiamo a meltdown di bambini autistici, veniamo a sapere i dettagli dei momenti di crisi e impariamo come va in bagno il bambino Tizio con disabilità fisica, magari anche con qualche informazione bonus sulla sua regolarità intestinale. E vediamo descritto quanto sia pesante assisterli.
È un approccio alla disabilità che la vede come qualcosa di “strano”, di eccezionale, di diverso, che è necessario spiegare alle persone non disabili. E finisce che i bambini disabili in questione vengono medicalizzati, scrutinizzati e discussi in una sorta di reality a cui non hanno il potere di dire sì o no. Del resto, medicalizzare e scrutinizzare le persone disabili è un comportamento comune anche al di fuori dai social, succede anche alle spese di adulti disabili, che però hanno più strumenti per affrontare la cosa e decisamente meno pubblico.
Cosa comporta per un bambino essere sottoposto a quello che a tutti gli effetti è uno scrutinio pubblico? Cosa comporta per quel bambino che tra pochissimi anni, navigando su Internet, troverà dettagli da cartella clinica su di sé immersi in una narrazione degradante, e tra parentesi le troveranno anche i suoi compagni di classe e amici? Non solo in pagine social, ricordiamoci, ma anche su interviste ai genitori, video e articoli legati ad esempio alle raccolte fondi di Telethon.
Ora, capisco benissimo che chi è da poco genitore di un bambino disabile, in una società in cui sembra una sorpresa che avere un figlio disabile sia una possibilità, in una società in cui la disabilità è così alterizzata che come genitore ti ritrovi isolato e privo di servizi, possa essere spaesato e impaurito. Ecco allora che si cerca una condivisione nell’unico modo che sembra possibile. Ma non dovrebbero essere i bambini disabili a scontare il fatto che a livello sociale l’unico modo in cui si concepisce la “vicinanza” alla disabilità è attraverso la fruizione dei loro dettagli personali.
[Maria Chiara]
Descrizione immagine: Chiara a circa quattro anni sorridente su un triciclo. Ha i capelli neri corti a caschetto con un ciuccetto, una maglia rosa pallido, pantaloni verdi e scarpe nere. Vicino a lei c’è un camino in mattoni e marmo.