Qualche giorno fa sono andata ad un evento, in un complesso di edifici con varie funzioni: una scuola, un centro diurno, la sala riunioni in cui dovevo andare io.
Ho parcheggiato vicino a una porta. Da quello che vedevo intorno, tutto vuoto, mi sembrava di aver sbagliato posto, e ho voluto chiedere informazioni. Quindi in pratica ho suonato il campanello del centro diurno.
È comparsa una donna con una disabilità intellettiva, l’ho vista avvicinarsi attraverso il vetro, e man mano si faceva più nitida, come la scena di un film. Aveva un’espressione di curiosità sul viso. Non so quanti visitatori inaspettati capitino al centro diurno.
Poi sono comparse due donne con divisa da personale sanitario, due divise diverse, una azzurra e una bianca, che hanno aperto la porta e sono uscite, e la donna con disabilità intellettiva un passo indietro. Entrambe indossavano guanti in lattice. Anche loro guardavano curiose. Io ho chiesto informazioni sul luogo che stavo cercando.
Ha risposto quella che sembrava più un’infermiera, e ha risposto in una maniera peculiare: alla mia domanda ha girato la testa verso la mia assistente e ha parlato solo a lei.
Nelle linee guida del lavoro le mie assistenti imparano che questa è una cosa che può accadere, che io faccia una domanda e il mio interlocutore alzi lo sguardo e risponda invece a loro. Le mie assistenti sanno che quando succede devono guardarmi e non rispondere.
In quel momento, al solito senso di disagio derivato dal fatto che alcuni estranei scelgono di rispondere alle mie domande rivolgendosi alla persona non disabile che mi accompagna, se n’è aggiunto un altro molto più pesante.
Io ero lì, fuori dal ghetto, con la libertà di decidere dove andare (libertà limitata dall’abilismo sistemico inclusa l’insufficienza di assistenza personale, certo, ma comunque in una buona situazione).
Davanti a me c’erano due operatrici sanitarie che lavorano con delle persone disabili e che alla mia domanda avevano ritenuto di non rispondermi, e rispondere invece alla persona non disabile accanto a me.
E la donna con disabilità intellettiva un passo indietro, mia sorella in un mondo che considera le persone come me e lei dei subumani.
In compagnia di persone coi guanti non scelte da lei. Prigioniera in degli stereotipi che fanno sì che sia normale che lei passi le sue giornate nel ghetto a fare le bomboniere, perché è questo il loro posto, il posto delle persone con disabilità impattanti e in particolare intellettive. Non lo mettiamo neanche in discussione, è fuori dal comune ordine di idee immaginare le persone con queste disabilità nella società e in ruoli che non siano imposti da altri.
Ho ringraziato per le informazioni, forse anche in un inutile tentativo di mostrare che era sbagliato rivolgersi alla mia assistente quando la domanda l’avevo fatta io, e che esistevo. La donna con disabilità intellettiva è rientrata immediatamente, lei che esiste ancora meno di me, lei che ha a che fare giornalmente con persone che la spersonalizzano, lei che fa lavoretti e therapy qualcosa, e attività ricreative, e a tantissimi va bene così.
[Elena]