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Abilismo interiorizzato: quando l’oppressione è interna

È dura lottare per i propri diritti quando in fondo in fondo si pensa di non meritarseli.

Le persone socialmente stigmatizzate (che subiscono ad esempio transfobia, omofobia, sessismo, insomma tipi di oppressione sociale e violenza pervasiva) a volte riversano l’oppressione esterna su sé stesse o sulla propria categoria sociale.

In pratica, interiorizzano i messaggi tossici che la società getta loro continuamente addosso nei media e nella vita quotidiana. È molto semplice, quasi inevitabile. Tutti noi siamo anche prodotti della società e della cultura in cui viviamo, e la società e la cultura sono sature di messaggi che pongono le persone in una gerarchia a seconda delle loro caratteristiche. Quindi la persona che fa parte di una o più categorie marginalizzate viene spinta a conformarsi con quella parte che la società giudica “normale”, e a giustificarsi continuamente per quello che fa, per quello che è.

Conoscevo una signora che pensava che gli uomini fossero più intelligenti delle donne, che fosse un fatto biologico, scontato. Ho conosciuto una ragazza di origine africana che ogni sera si spalmava sul viso crema schiarente o impacchi al limone. Ho conosciuto un ragazzo pakistano che sosteneva convinto che la pelle chiara fosse oggettivamente più bella, e che un bianco non poteva capire perché la dava per scontata. È una dinamica tipica delle minoranze, quella di voler “assomigliare” al gruppo di maggioranza, cioè quello che non viene discriminato.

Ora parliamo dell’abilismo interiorizzato: quella serie di convinzioni tossiche su se stessi in quanto persona disabile e sulla propria categoria.

Da donna disabile, sperimento il sessismo e l’abilismo, anche se tendo a sentire molto di più il secondo, che trovo molto più pervasivo, radicato e istituzionalizzato.

Ricevo la mia buona quantità di messaggi tossici dalla società, dai media, dagli insegnanti, dai medici, dagli sconosciuti; sperimento comportamenti abilisti, che mettono cioè l’abilità fisica o mentale come criterio per gerarchizzare le persone, e devo fare uno sforzo per non interiorizzare tutta questa m**da. Per far sì che non abbia impatto negativo sulle mie scelte, sulla mia vita. L’abilismo, infatti, ti dice certe cose: e tu, se non lo riconosci come tale, finisci per crederci.

È particolarmente facile interiorizzare le idee e i pregiudizi di una società che vede e tratta la disabilità come “altro”, come qualcosa di inerentemente tragico e non desiderabile, da evitare o da trattare come oggetto di pietà.

L’abilismo interiorizzato vuol dire sentirsi inferiori, meno degni e meritevoli degli altri, vergognarsi di chi si è e di come si è. Vuol dire non riconoscere il proprio valore o arrivare a odiare se stessi – o aspetti di se stessi. Tutto questo perché ci si paragona ad un presunto ideale di “normalità”.

Il problema è che si tratta di un pensiero inconscio che permea una visione del mondo, difficile da decostruire. È nel momento in cui ce se ne rende conto che si può iniziare a sradicare questo comportamento.

L’abilismo interiorizzato porta ad accettare di non partecipare appieno alla società, perché ci si sente, in fondo, fondamentalmente diversi – si pensa cioè che i problemi non siano la mancanza di servizi e l’accessibilità non garantita.

Un pensiero inconscio può essere appunto questo: che essere disabile comporti un “essere altro”, una diversità così orribile, importante e totalizzante che dev’essere proprio questa la ragione per cui riceviamo un trattamento pessimo nella società e subiamo discriminazioni. Il mio assistente mi tratta male? Be’, sono disabile dopotutto, deve essere difficile prendersi cura di me. Il negozio sotto casa è inaccessibile? Be’, una rampa costa, il mio diritto alla libertà di movimento è poco importante. Eccetera.

Può capitare di accettare comportamenti abilisti con un vago malessere senza nome che non si sa come chiamare, pensando che dopotutto siano comportamenti comprensibili, normali, perché siamo noi a essere diversi e fuori dalla “norma”, no?

Abbiamo paura di diventare fastidiosi, ancora più di quello che già la società inaccessibile ci fa sentire. E allora cerchiamo di creare meno disagi possibile. Perché altrimenti crediamo di essere tacciati come troppo drammatici, piagnucolosi, pessimisti, pignoli, polemici, incazzati, “difficili” come coloro che “la fanno troppo grossa”, e non vogliamo certo confermare gli stereotipi che gli altri hanno di noi!

Dopotutto, ci viene spesso insegnato a mimizzare la nostra disabilità, a “non farla pesare”, invece che a riconoscerla come parte integrante della nostra identità.

Impariamo che la cosa migliore è “superare la disabilità”: cosa vuol dire a livello pratico devo ancora capirlo. “Superare” la disabilità implica considerarla un fardello, qualcosa per cui essere compatiti. E ci mette nella condizione di dover combattere una parte di noi stessi, cosa deleteria e semplicemente impossibile. Si può arrivare a considerare la disabilità come qualcosa che nasconde una presunta “vera identità”. Come se tu non fossi abbastanza, e ci volesse una versione di te non disabile per essere davvero davvero a posto.

La disabilità diventa la ragione per un complesso di inferiorità, che influenza l’immagine generale che la persona ha di se stessa.

Crescere e parlare di se stessi usando il solo linguaggio medico della patologia – come spesso accade – può essere pericoloso e fuorviante, perché si tratta di un linguaggio che esprime difetti e incompletezza rispetto a un supposto corpo “normale” che in realtà non esiste. “Affetti da”, “soffrire di”, sono espressioni deleterie e configurano la disabilità come qualcosa di cui si è vittima, e le persone disabili come sfortunate, fragili e mancanti.

Un’altra faccia dell’abilismo interiorizzato è che, in quanto disabili, ci sentiamo in dovere di dimostrare qualcosa, perché le aspettative della società verso di noi sono basse in partenza.

E allora diciamo a gran voce che quella laurea l’abbiamo presa, che non siamo stupidi, che “non siamo mica disabili mentali”.

Ci convinciamo che dobbiamo fare il massimo, impegnarci, raggiungere l’eccellenza – anche se non ci procura gioia – e allora forse non dovremo più dimostrare niente e varremo tanto quanto le persone non disabili. Questo è un comportamento difficile da contrastare: diventa difficile fare solo quello che ci va senza badare ai giudizi esterni, perché se facciamo qualcosa di “mediocre” rischiamo effettivamente di essere sottovalutati, non presi sul serio, discriminati.

Ma sentire l’obbligo di dover dimostrare continuamente il proprio valore alle persone che ti sottovalutano è una cosa super stancante. Fare sempre quello sforzo in più per essere considerati è una pratica estenuante.

Si può arrivare a sforzare eccessivamente il proprio corpo cercando di fare sempre di più, cercando di mostrare che non siamo da meno rispetto alle persone non disabili, tra l’altro spesso non rispettando la fatica di affrontare un mondo non accessibile.

Alcune forme di abilismo interiorizzato somigliano superficialmente ad un’alta stima di sé: parlo del vantarsi della propria presunta “normalità” etichettando altre persone disabili come “pigre” o “lamentose”. Oltretutto questa “normalità” fatta di successi personali di solito non è altro che vantaggio sociale, per esempio l’avere una buona condizione economica e delle opportunità che ti hanno permesso di fare cose.

Si tratta in realtà della paura di essere scambiati per “uno di quelli”, uno di quelli che rispondono allo stereotipo del disabile triste, chiuso in casa e passivo. Ci si sente insomma superiori ad altre persone disabili, quelli che “sono messi peggio” da cui ci si cerca di distanziare, come a voler dire: “non sono come loro, accettatemi nella vostra società di Normali!”

Disprezzare altri nella propria categoria è lo specchio del proprio odio interiorizzato. Buttare giù quelli che consideriamo “più disabili” di noi significa ripetere le stesse dinamiche di discriminazione che viviamo sulla nostra pelle.

Un comportamento simile è escludere a priori una relazione con un’altra persona disabile perché diciamo che “non dobbiamo accontentarci”. Come se stare con un’altra persona disabile volesse dire accontentarsi. In pratica pensiamo che una relazione con una persona disabile valga di meno. Che, allora, una relazione con noi valga di meno.

Di fondo, abbiamo paura che la gente ci dica che ci piangiamo addosso e che siamo la causa della nostra ghettizzazione: si tratta di uno schema ricorrente nelle varie categorie sociali marginalizzate.

L’oppressione orizzontale si trova tra le donne (misoginia orizzontale), tra le persone dello stesso gruppo etnico (razzismo interiorizzato, colorismo), tra le persone LGBT (omofobia/ transfobia/ bifobia interiorizzata) e in generale in tutti i gruppi discriminati. Destabilizza i movimenti per la giustizia e l’uguaglianza, e ci tiene occupati a combattere tra di noi piuttosto che focalizzarci sulla questione macroscopica dell’oppressione generale.

Del resto,

l’oppressione interiorizzata è […] il risultato del nostro maltrattamento. Non esisterebbe senza la reale oppressione esterna che forma il clima sociale in cui esistiamo. Una volta che l’oppressione è stata interiorizzata, basta poca forza per mantenerci remissivi. Coviamo dentro di noi il dolore e i ricordi, le paure e la confusione, la scarsa autostima e le basse aspettative, e li trasformiamo in armi con cui feriamo noi stessi ancora e ancora, ogni giorno della nostra vita”

(Marks, 1999).

Per riassumere, e per dare una carrellata di esempi di abilismo interiorizzato:

Abilismo interiorizzato è l’idea di dover essere sempre grati per l’accessibilità; l’idea di non meritare le stesse opportunità dei propri pari non disabili; cercare di normalizzare il più possibile i propri comportamenti e il proprio corpo; spingersi oltre ai limiti fisici per non creare disagi.

Abilismo interiorizzato è provare odio o vergogna verso il proprio corpo disabile; è la paura di non essere “abbastanza”; la volontà di voler in qualche modo “compensare” la propria disabilità; è la paura di essere parte attiva nell’iniziare una relazione affettiva; pensare che i propri bisogni siano troppi; considerare l’abuso e il bullismo come normali, sentirsi un peso; dire di essere “diverso e speciale”, o di contro affannarsi continuamente a dire “non sono diverso”, “sono come te”; essere a disagio quando si è vicino ad altre persone disabili, per paura dei giudizi della gente; continuare, facendoti del male, a frequentare persone abiliste che hanno dimostrato di considerarti inferiore.

L’abilismo interiorizzato è non riuscire a riconoscere l’abilismo perché hai normalizzato una pratica.

Il tuo corpo, la tua identità vanno bene esattamente così, sono perfetti e fantastici esattamente come sono, perché sono tuoi. Rendono te, te.

[Elena]

1 commento

  1. Elena bellissimo questo post hai perfettamente colto la disabilità in tutte le sue sfaccettature, quelle che rifiutiamo di cogliere. La società rispecchia perfettamente un modo di vedere, disabili fate, facciamo la prima mossa, facciamo capire che abbiamo capito; non nascondiamoci dietro la nostra stessa non accettazione e sono più che mai certa che la società cambierà con noi. Grazie Elena ti seguo Paola

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