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La persona disabile vincente

La nostra società ha un’idea precisa di chi sia la persona disabile “giusta”, vincente, di successo: quella che non parla (troppo) di disabilità.

“È una reazione esagerata!”

“Sì, ma che ansia!”

“Non capisco perché la fai più grossa di quello che è!”

C’è spesso qualcuno che commenta su questa linea quando si affronta un problema legato a quel sistema di poteri, norme e rappresentazioni che è l’abilismo.

E anche se non ci viene detto direttamente, le persone disabili imparano ad adattarsi a questi punti di vista. Stiamo zitti e affrontiamo i nostri problemi in modo tale da non disturbare nessuno.

Già prendiamo così tanto spazio ed energia; non far “pesare” questa parte di noi è il minimo che possiamo fare, giusto?

L’abilismo ci dice che è già un problema se sei disabile, ma ancora di più se ne parli.

Io ci ero caduta in questa retorica.

Sì, perché a tredici anni proprio non capivo come mai le persone disabili in cui mi imbattevo su Internet o altrove facessero spesso lavori collegati alla disabilità o studiassero tematiche come la disabilità e la società.

Con superficialità, e in modo un po’ snob, davo i miei giudizi: ora me ne vergogno un po’, ma in qualche modo pensavo fosse limitante essere disabili e parlare e interessarsi di disabilità, addirittura “specializzarsi” nell’ambito (ad esempio, essere un giornalista disabile e scrivere di disabilità). Lo vedevo come riduttivo e noioso: sei disabile e parli di disabilità, che poca originalità, pensavo!

Anzi, la persona disabile “vincente”, giusta, che era nella mia testa doveva quasi disinteressarsi di argomenti simili, doveva vivere la disabilità come un accessorio della propria vita. Del resto, ero la stessa ragazzina che alle elementari praticamente neanche si rendeva neanche conto di essere disabile. Alle elementari non mi mancava nulla: la scuola era accessibile, e avevo la stessa libertà di movimento dei miei coetanei, dunque per me la carrozzina era alla pari di un paio di occhiali per qualcun altro.

A tredici anni ero sinceramente convinta che non ci fossero cose interessanti da dire sul tema disabilità. Non conoscevo la parola abilismo, dunque non esistendo la parola nel mio mondo non esisteva l’abilismo. Sì, certo, c’erano i pregiudizi di alcune persone che non mi conoscevano, ma non mi rendevo conto del problema strutturale. Nel mio piccolo mondo dorato di secchiona pupilla degli insegnanti (ruolo che mi infastidiva un po’ e che mi provocava ribellione, ma di cui comunque godevo volente o nolente i benefici) ero abbastanza privilegiata da potermi permettere di snobbare un po’ chi studiava questi temi.

Da adolescente avevo tutt’altro per la testa che i disability rights, e forse era anche normale così.

Eppure il fatto che fossi già curiosa della rappresentazione dei personaggi disabili nei film, e il fatto stesso che su internet finissi per cercare distrattamente persone disabili erano in fondo contraddizioni che probabilmente non riconoscevo. Indizi di una curiosità che sarebbe emersa più tardi, in quel momento troppo sopita dagli input della società.

Adesso invece ringrazio tantissimo il giorno in cui mi sono imbattuta nei disability studies, e nella cultura della disabilità. Ora che ho avuto alcuni strumenti e risorse per decostruire certe dinamiche, penso che sia imprescindibile, da persona disabile, confrontarsi con la storia della disabilità e l’attivismo di questa community, e se non si hanno mezzi o energia per farne parte attiva, perlomeno riconoscerli, onorarli, rispettarli, pena ignorare una parte fondamentale della propria identità.

E parlarne, soprattutto parlarne, anche se poi si viene considerati polemici o noiosi.

Fino a che nel discorso pubblico dominante sulla disabilità le voci delle persone disabili non avranno superato in numero e forza quelle di chi non è disabile.

[Maria Chiara]

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