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L’accessibilità è una cosa ovvia, e l’ho imparato alle elementari

L’accessibilità e l’inclusione me le hanno insegnate (anche) i miei maestri delle elementari.

La scuola elementare per me è stata una specie di isola comoda, un posto in cui non vedevo l’ora di andare, dove i maestri si ingegnavano a rendere inclusiva ogni attività, sicuramente facilitati dal fatto che era una realtà piccola, una scuola di quartiere molto “familiare”.

Il maestro di inglese, francese e musica era un appassionato di ballo, e spesso ci insegnava balli di gruppo che prendeva estremamente sul serio a livello tecnico. Mi ricordo in particolare quello che chiamavamo il Ballo della scatola, in cui si mimava l’essere imprigionati in una scatola da cui ci si liberava, per poi – alla fine – ballare in modo scatenato. Era un ballo estremamente preciso e molti all’inizio sbagliavano. Il maestro, con molta semplicità, aveva adattato tutti i passi ai movimenti che potevo fare io con la carrozzina e alzando poco le braccia. Era tutto molto naturale, tanto che allora pensavo e sentivo di fare esattamente gli stessi movimenti degli altri, anche se a pensarci adesso sicuramente si trattava di mosse abbastanza diverse. Con poche indicazioni, il maestro era riuscito a farci sentire tutti parte di un unico grande corpo, come accade in ogni coreografia che si rispetti.

Una semplicità che cozza di fronte a svariati altri insegnanti che ho avuto negli anni successivi, estremamente timorosi appena si trattava di fare qualcosa di minimamente fisico.

C’era poi il mio maestro preferito, quello che avevamo per più ore perché ci faceva italiano, matematica, scienze e storia, che ha ovviato al problema dei pastelli per colorare.

Le tonnellate di schede e disegni che producevamo quotidianamente, infatti, non potevano certo restare in bianco e nero. Dovevamo coprire di colori ogni superficie disponibile, e dopo ogni dettato e poesia c’era la sua brava illustrazione o cornicetta. Colorarle tutte mi comportava una certa fatica: a volte li lasciavo a metà e li facevo colorare alla mia assistente, oppure ricorrevo all’espediente della “polverina” di mina fatta con il temperino per colorare spazi come cieli e prati. In particolare odiavo i pastelli gialli, che alla pressione leggera della mia mano risultavano quasi trasparenti. Un giorno il maestro è entrato in classe e, senza alcun preavviso, mi aveva comprato dei pastelli con la mina morbida, per cui avrei dovuto calzare meno. Un altro giorno mi ha portato tutta una collezione di matite con la mina morbida che ho adorato.

Mi ricordo che abbiamo provato insieme un paio di marche di pastelli per arrivare alle mine più morbide che si riuscivano a trovare.

Avere dei pastelli diversi mi divertiva, ma non furono mai concepiti come “favori speciali”. Per me era la cosa più ovvia del mondo: siccome non riuscivo a calzare, mi sembrava normale avere delle matite particolari rispetto agli altri.

Non mi sono mai sentita trattata “con i guanti”, in modo particolarmente speciale o sdolcinato da maestri e maestre delle elementari.

Il maestro delle matite, in particolare, era ruvido e ironico, era impulsivo e quando si arrabbiava incuteva un certo timore. Era un insegnante che non faceva sconti a nessuno, tanto che mi ricordo un episodio significativo per cui mi ricordo di aver provato un certo risentimento verso di lui.

Quel giorno aveva annunciato che saremmo andati nell’aula dei computer, un’attività che era ancora particolarmente affascinante nei primissimi anni duemila, perché oltre alla varietà delle attività rispetto alle solite lezioni c’era anche la novità del computer che molti a casa non avevano o non usavano. Era un vero e proprio lusso.

Ma per quella volta, disse il maestro, un mio compagno non ci sarebbe andato, perché doveva recuperare un testo da copiare in cui era rimasto indietro e che sarebbe servito per le lezioni successive. Quindi, se per lui andava bene, sarebbe rimasto in classe a finire il compito. Il mio amico era un ragazzino creativo e artistico ed estremamente lento a scrivere, sembrava che non avesse mai fretta. Lui iniziò quindi a tirare fuori il quaderno, rassegnato a restare in classe, mentre io mi preparavo per andare con gli altri nell’aula di computer, quando il maestro mi fece: “Chiara, tu rimani qui a dettargli, per favore, così fa prima, ok?”

Il mio “Sì” cercava di mascherare il mio disappunto, ma per la Chiara novenne era un bel colpo, lo sapevano tutti che aiutare quel bambino a scrivere era un po’ snervante, e poi farlo al posto della meraviglia dell’aula computer mi sembrava una profonda ingiustizia.

Insomma, nessun trattamento di favore per me. Credo che pochi altri, tra gli insegnanti che ho avuto poi alle medie, per esempio, avrebbero scelto proprio la ragazza in carrozzina, che magari vedevano come “poverina”, per restare in classe quando si trattava di fare attività divertenti nell’aula di informatica.

E invece restammo in classe io, il mio amico, la mia assistente e un testo infinito da copiare, mentre gli altri si godevano chissà quale meraviglia al computer.

Insomma, la mia scuola era una microsocietà che mi ha insegnato come dovrebbe funzionare una società giusta per le persone disabili: riservare a ognuno lo stesso trattamento, e ingegnarsi nelle strategie per rendere accessibili le cose a tutti.

[Maria Chiara]

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