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Il Disability pride, o perché sono fiera di essere disabile

Io sono orgogliosa di essere disabile.

È il concetto del disability pride, così come c’è il pride LGBTQI.

La disabilità non è mai stata un’identità da cui ho sentito la necessità di distanziarmi, penso invece che abbia portato varie cose positive nella mia vita: aver sempre bisogno di aiuto fisico rende più creativi e consapevoli dell’interdipendenza tra le persone, sviluppa le capacità comunicative e l’empatia.

Ma non è per questo che mi considero orgogliosa di essere disabile. Lo sono perché essere disabile mi ha portato vicina a innumerevoli storie di discriminazione che non avrei mai conosciuto altrimenti. Storie che mi hanno reso più solidale, più umana, che hanno allargato il mio sguardo sull’ingiustizia che ci circonda.

A volte si arriva a un punto di non ritorno.

Quando si hanno amici che quasi non escono perché non hanno la possibilità di assumere assistenti personali, ti si rompe qualcosa dentro, e non si torna indietro.

Quando si vede che la normalità per i ragazzi disabili è frequentare l’università online, perdendosi opportunità e incontri, perché per loro non ci sono abbastanza risorse, ci si sente soffocare, e non si torna indietro.

Quando si sa che le persone disabili sono così poco valorizzate in Italia che spesso agli studenti con disabilità intellettiva si fanno vedere i cartoni animati, non si torna indietro.

Quando si vedono persone disabili che credono davvero che non hanno relazioni perché il loro corpo è “diverso”, e non perché hanno barriere sociali, non si torna indietro.

Non si è più quelli di prima: la rabbia bruciante si mischia all’orgoglio, e le due cose si alimentano a vicenda.

Funziona così il pride delle minoranze: è una fierezza che nasce in contrapposizione all’essere considerati “difettosi” e “diversi”.

Più ci valutano così, più, in risposta, noi sentiamo il pride. Più veniamo rappresentati male in tv, più diventiamo orgogliosi di chi siamo. Più non siamo previsti, più ci facciamo vedere. Più ci fanno cascare i diritti dall’alto, come fossero favori e concessioni, più non ci scusiamo di esistere.

Essere disabile mi ha portato a conoscere persone meravigliose da cui ho imparato moltissimo e una community fantastica: sarò parziale ma il movimento internazionale delle persone disabili per me è il più inclusivo, diversificato e fiero di tutti!

Una community che quando si organizza fa cose fuori dal mondo, come i Rolling Quads, grazie al cui coraggio i teenager americani e del nord Europa danno per scontato di ricevere 24 ore di assistenza personale, perché non hanno conosciuto un mondo senza assistenti personali. La storia delle persone disabili vanta movimenti di liberazione dalle strutture segreganti grazie alla complicità tra le persone disabili e i loro assistenti; occupazioni dei luoghi di potere che durano giorni pur con condizioni fisiche non ideali; alleanze con gli attivisti per i diritti degli afroamericani; persone disabili che si arrampicano sulla gradinata della sede del congresso statunitense e obbligano a firmare testi di legge; persone in carrozzina che con la resistenza non violenta rendono accessibili gli autobus di intere metropoli.

Tutto questo, anche, è il disability pride.

Solo se “disabile” è un’identità che si indossa a testa alta si ottengono le cose. Usando troppi “per favore”, scusandosi quasi di esistere, storicamente si ottiene poco.

Noi persone disabili dobbiamo riappropriarci del pride. Un pride che può avere mille sfumature diverse: l’importante è che comprenda la rivendicazione di avere uguale valore rispetto a chi non è disabile. Un non scusarsi di essere più lenti. Di avere bisogni diversi da quelli previsti. Di occupare più spazio. Di percepire il mondo in modo non standard. Di volere le stesse cose di tutti.

[Maria Chiara]

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