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L’attivismo (e la vita) in Inghilterra vs in Italia

Neanche a dirlo, il giusto contesto influenza molte cose. In Inghilterra facevo l’università, e la grandissima parte del mio attivismo riguardava appunto quella. Per quanto suoni incredibile, per contare la quantità di problemi – soprattutto di accessibilità ma non solo – che ho incontrato all’università servono tutte le dita delle mani e anche qualcuna dei piedi. Erano così tanti che a un certo punto ho deciso che se volevo continuare a studiare dovevo necessariamente abbozzare su alcuni.

Qui in Italia il mio problema martellante è l’insufficienza dei fondi per l’assistenza personale. È inutile pensare ai livelli successivi, quando sai che fare piani a lungo termine è infattibile dato che la tua Regione decreta che sei a posto con una trentina di ore di assistenza a settimana.

Se poi penso ai peggiori episodi di discriminazione mai vissuti, sono successi abbastanza indifferentemente sia in Italia che in Inghilterra. Eppure una differenza fondamentale tra Italia e Inghilterra c’è, ed è la concezione di discriminazione. Certo, la disabilità rimane comunque spesso tra i fanalini di coda delle priorità di chi si dice attivo nelle questioni di giustizia sociale, ma in generale la discriminazione in Inghilterra è una cosa seria. Negli uffici pubblici ci sono cartelli sul fatto che la discriminazione non è tollerata. Nelle università ci sono studenti eletti che rappresentano i vari gruppi marginalizzati, persone disabili comprese ovviamente. E quando denunci qualcosa di discriminatorio scatta, come dire, un allarme. Magari la persona che rappresenta l’istituzione a cui ti stai rivolgendo non ha neanche mai associato la parola discriminazione alla disabilità, ma sicuramente l’ha sentita in relazione alle altre identità sociali. E quindi ci fa più che un pensierino prima di continuare col comportamento discriminatorio.

Le ultime due volte che in Italia in circostanze diverse ho usato la parola “discriminazione” in relazione alla disabilità mi sono state dette queste due cose: “Eh no, eh no, non chiamarla discriminazione, non è corretto, lo dici per attaccarti a qualcosa. Se dici così me ne vado” e “Ah, lo sapevo che volevi arrivare qui. Non è discriminazione”.

In breve, qui se sentono la parola discriminazione poco ci manca che ti ridono in faccia. In Inghilterra gli si stringono giustamente le chiappine. Quindi, nella mia esperienza, fare attivismo in Inghilterra è in generale più facile proprio per la maggiore cultura di giustizia sociale.

Ho avuto anche una sorta di situazione privilegiata perché ero nel dipartimento di scienze politiche, e quindi quando le cose all’università si impuntavano e i responsabili erano riottosi scrivevo una bella mail sui diritti delle minoranze bla bla bla, mettevo pigramente in copia tutti i miei insegnanti e il problema come per magia si sbloccava.

Poi, a me piacciono quei climi inglesi umidi e striscianti dove tutto è grigio e l’erba è così verde che sembra che si droga; e mi piace anche l’inverno in generale, col vento pungente sulla faccia. Ma l’inverno italiano fa schifo. Fa schifo perché d’inverno ovviamente tutto si svolge all’interno, e ogni volta che vado in un posto nuovo devo controllare che sia accessibile, e spesso non lo è. A quel punto – se mi va di accollarmi lo sbattimento – devo decidere il modo per far spostare l’evento da un’altra parte attraverso vari metodi di persuasione. Per non parlare della miriade di negozi e locali inaccessibili: una cosa orribile di per sé, ma che d’inverno si fa sentire anche di più perché non puoi neanche entrare da qualche parte a scaldarti.

A Londra la normalità è che gran parte dei negozi/locali e ovviamente tutti gli uffici pubblici siano accessibili. Gli esercizi commerciali che non lo sono sanno di essere in difetto.

E poi la gente in giro. A Londra è raro che la gente mi fissi, al massimo qualcuno commenta che ho una carrozzina figa. In Italia… come dire… mi sento osservata. Una cosa che mi fa incazzare è che a volte la gente è così impegnata a fissarmi che rallenta un po’ e non mi fa passare.

Succede anche che ogni tanto la gente che lavora al pubblico a Londra mi si rivolga in modo strano, o parli a qualunque persona non disabile sia vicina a me. In Italia la triste e dura realtà è che mi stupisco quando questo NON succede: quando un commesso fa il suo lavoro come si deve senza mostrare pregiudizi abilisti ci faccio caso.

Tutto questo per dire che il contesto è fondamentale. Lo sapevamo già, ok, ma è sempre bene ricordarlo.

In un ambiente così ostile come quello italiano non è una sorpresa se l’attivismo a volte non riesce a essere efficace. Tutto intorno a te ti ricorda costantemente che sei un cittadino di serie B e ovviamente non possiamo fingere che questo non abbia conseguenze. Ma tutti i giorni sono contenta di avere ben presente una realtà in cui le cose sono migliori, e che voglio tendere a quello e anche di più.

[Elena]

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