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Quando si assiste a una discriminazione

Ultimamente sto leggendo tante vicende orrende di discriminazione sui mezzi pubblici, soprattutto ai danni di persone non bianche. E mi è rivenuto in mente un episodio successo a Londra due anni fa.

Era inverno, io e Chiara dovevamo tornare a casa dopo un giro in centro a fine pomeriggio. Avevamo deciso di prendere un autobus: lento e affollato, ma la metro in quel punto non era accessibile. Dopo parecchia attesa ecco arrivare il nostro autobus, finalmente.

L’autista, dal suo sedile di guida, ha fatto scendere la rampa automatica e io sono salita per prima: le mie mani hanno subito cominciato a scaldarsi. Chiara è salita dietro di me e ci siamo sistemate come al solito. Ma l’autobus non partiva, e dopo pochi secondi abbiamo visto l’autista venire verso di noi.

Eravamo con due assistenti, e la donna si è rivolta a loro.

Non possono salire due carrozzine insieme, una deve scendere

Aggressiva, scortese e rivolta ai bipedi: decisamente non una bella cosa.

La scena è stata pessima. Malgrado le nostre proteste, l’autista urlava sempre più forte, e Chiara alla fine è scesa per cercare un taxi.

Ironia della sorte, l’autista era nera. E quindi, mentre cercavo di difendermi da un attacco gratuito, io pensavo a Rosa Parks e a quanto simili siano le categorie “disabili” e “neri”: stessa storia di segregazione e divieto di accesso ai mezzi pubblici.

La cosa più brutta però non è stata il fatto in sé: l’autista che urlava peggiorando sempre di più (“c’è una badante per ciascuna, quindi possono andare in autobus separati!!”), l’abuso di potere, il fatto che eravamo stanche dopo una giornata fuori e non al nostro meglio per piantare una protesta.

Il peggio è stato che praticamente tutti gli altri passeggeri sono rimasti apatici, con l’espressione vacua.

Solo un paio di persone ci hanno difeso debolmente, più che altro parlottando tra loro chiedendosi se la mia poteva essere definita sedia a rotelle o passeggino per bambini.

Una discriminazione così esplicita (con tanto di urla) non mi era mai capitata in pubblico. Appena sono tornata a casa ho fatto la segnalazione sul sito dei trasporti, ma quello che sarebbe servito davvero era il supporto delle persone presenti. Non perché non mi so difendere da sola, ma perché c’era un grosso, evidente squilibrio di potere che andava colmato.

Mi ricorderò sempre di chi si è opposto pubblicamente a un trattamento disumanizzante, di chi ha mostrato sdegno a comportamenti non accettabili, più che di una persona a caso che mi ha discriminato.

Perché anche se questa dell’autobus è stata plateale, la discriminazione non arriva sempre suonando i tamburi. Spesso sembra mascherata da buone intenzioni ed è più sottile e difficile da individuare, immersi come siamo in una cultura abilista.

Mi succede di sentire o sperimentare cose discriminatorie in pubblico. Sottintesi, discriminazioni più subdole che penso di notare solo io. Una prof che mi salta con una scusa dal giro di presentazioni, un prof che mi usa come scusa per imporre il silenzio (“zitti, date fastidio a Elena!”), o complimenti sperticati a me per il fatto che esisto e faccio cose normali o a qualcuno a me vicino perché “mi aiuta”.

Invece poi mi giro, guardo gli astanti. E molto spesso c’è qualcuno che guarda la scena attentissimo con l’espressione oltraggiata, o stupita, o confusa. Qualcuno che sembra aver colto tutto.

Sono contenta quando vedo qualcuno che ha afferrato quello che è successo, perché si crea una connessione assurda: vuol dire che ho le spalle coperte e che se decidessi di sfidare la persona pubblicamente non sarei da sola. Poi a volte c’è anche chi mi difende attivamente, e allora lì devo solo rilassarmi e mangiare i pop-corn.

Quando assistite a un episodio di discriminazione verso qualcun altro, parlate. O fate capire che non siete d’accordo. È questo che resta.

[Elena]

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