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Riflessioni su un attivismo “di facciata”, moderato e digeribile

Questo periodo di proteste della comunità nera (e risveglio della comunità bianca) negli Stati Uniti e nel mondo mi ha fatto pensare a come scelgo le persone a cui affidarmi per imparare sulle questioni di giustizia sociale.

Non tutti coloro che si definiscono formatori o attivisti sui diritti delle categorie marginalizzate, infatti, hanno necessariamente messaggi di liberazione. Alcuni hanno messaggi problematici.

Ogni gruppo sociale è ovviamente molto variegato: al suo interno troviamo anche “moderati” più o meno indifferenti, fieri conservatori e persino apologisti del fascismo. Vivere un’identità non è la stessa cosa che fare analisi politiche. Solo perché una persona è nera e ha un pubblico, non è automaticamente una risorsa di giustizia razziale.

Mi sono chiesta dunque: come faccio a capire chi “ha ragione” su un tema, chi supportare, quando gli attivisti (ad esempio) neri hanno opinioni diverse tra loro?

A me personalmente non interessa un lavoro di giustizia sociale che non sia radicale, e con “radicale” intendo (al di là dei significati che vengono dati alla parola radicale) qualcosa che non rimanga in superficie, che vada a fondo a cercare l’origine dei problemi, che non perpetui l’oppressione in nessuna forma e che si preoccupi della liberazione di tutti. Con le parole di Angela Davis Essere radicale significa semplicemente afferrare le cose alla radice”.

A volte gli approcci e le rivendicazioni meno radicali nuocciono al lavoro dei movimenti di liberazione e opprimono attivamente le persone. È il caso ad esempio del “femminismo bianco” che non prende in considerazione alcune persone.

Con questo non dico che sono importanti solo le voci radicali, assolutamente. Ovviamente tutte le esperienze dirette di discriminazione e oppressione sociale hanno valore.

È possibile rispettare le diverse esperienze senza però anche appoggiare i messaggi delle persone con la cui politica non siamo d’accordo.

Ho pensato ad alcune caratteristiche che per me rendono problematico il lavoro di un attivista per i diritti:

  • Non scrive cose che potenzialmente ti mettono a disagio perché ti chiedono di radicalizzare (cioè andare a fondo) di più, di avere più empatia (nel senso di “compassion”), di espandere il raggio di ciò che è possibile. Scrive cose rassicuranti in un modo semplicistico e facilmente digeribile per un pubblico che non vive la sua stessa marginalizzazione. In questo modo può attivare in chi lo legge una sorta di senso di colpa senza però smuovere troppo in profondità. Smuovere in profondità vorrebbe dire infatti scatenare potenzialmente un atteggiamento difensivo in chi legge, la cosiddetta “fragility” del gruppo dominante. È un attivismo cauto, gradevole, prudente.
  • Il pubblico a cui vuole rivolgersi sono le persone che non vivono la sua marginalizzazione e il suo intento primario non è dissezionare e decostruire l’oppressione per la liberazione delle persone che vivono le sue stesse discriminazioni. Coloro intorno a cui ruota il suo lavoro sono le persone non marginalizzate: cerca di essere “digeribile” e c’è spesso la condivisione di video e immagini ad alto impatto emotivo che hanno ampia risonanza mediatica, in una sorta di pornografia della marginalizzazione.
  • Prende le distanze dalla propria esperienza di persona marginalizzata, adotta addirittura lo “sguardo” tipico delle persone che non vivono la sua marginalizzazione. Parla (implicitamente o meno) delle altre persone della sua “categoria” sociale come di persone un po’ di serie B oppure lascia intendere che non hanno avuto il suo stesso coraggio e determinazione, o dice che sbagliano nel loro modo di vivere la discriminazione, magari facendo ironia su chi si “lamenta” troppo. Cerca in questo modo di essere più simile alla categoria “dominante”, con un meccanismo tipico di chi prova a rimanere a galla in un mondo che lo discrimina.
  • Dà l’idea che da una parte ci sono i buoni e dall’altra ci sono i cattivi. Gioca con un messaggio “noi contro loro”, dove chiunque dissenta con il suo lavoro è dipinto come un malintenzionato che vuole solo creare discordia e ostacolare la sua Verità. Dato che ovviamente viene attaccato di frequente e in modo becero e odioso dai conservatori e dai suprematisti, li usa spesso come diversivo: nessuna delle critiche contro il suo lavoro potrà mai essere fondata, secondo lui, perché sono tutte dovute alle campagne di “disinformazione” dei bigotti. Si dipinge come perpetua vittima, costantemente sotto attacco, allo scopo di deviare le critiche.

[Maria Chiara]

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