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Sul doversi “vendere bene” per forza quando sei disabile

Quando sono in un gruppo di persone nuove capita spesso che almeno qualcuno si presenti a tutti (non disabili, ovviamente) tranne che a me, e che rivolga la parola a tutti tranne che a me. Non è raro, e il motivo è ovviamente chiarissimo: siamo immersi in una cultura per cui si tende a considerare “meno” le persone disabili, a sottovalutarle e a ignorarle. Per quanto sia deprimente, ci sono abituata. Metto in conto, quando conosco persone nuove, che tra di loro ce ne saranno di abiliste, e sono “allenata” a non rimanere ferita da comportamenti discriminatori. Scherzando con Chiara prima di andare in situazioni con varie persone che non conosco, dico: “L’abilismo non esiste”. Perché so benissimo che esiste, ma se mi facessi fermare dalla concreta possibilità di incontrarlo non farei più nulla.

Poi, mentre ci si conosce, le suddette persone rimangono stupite dal fatto che apparentemente non rientro in qualche loro schema mentale, e che sono una persona con cui è possibile interagire. La vedo proprio la scintilla di interesse e meraviglia quando sentono uscire dalla mia bocca cose sufficientemente intelligenti o interessanti. A quel punto iniziano a rivolgermi la parola, a salutarmi, a scherzare. Quello che hanno già iniziato a fare con le altre persone che non sono visibilmente disabili, con me iniziano a farlo dopo.

Ora, ho notato una cosa. Se in qualche modo viene fuori che ho studiato all’estero, immediatamente l’interesse verso di me delle persone abiliste che non mi conoscono sale tantissimo. Una volta rivelata quest’informazione è come se mi vedessero finalmente al loro livello, perché mi iniziano a parlare quasi normalmente (quasi, perché non dimentichiamo che sono persone abiliste). Ai loro occhi ora non sono più un’anonima ragazzetta disabile, ma una tizia che – accipicchia – ha fatto l’università. E – accipicchia – in inglese.

Non volendo credere a questo triste meccanismo di aumento della considerazione a seguito della rivelazione inaspettata di una certificazione accademica, una volta ho fatto una prova. Ero in un gruppo di alcune persone nuove. Dopo aver parlato un po’, ho intenzionalmente fatto capitare che ho studiato a Londra. Ed è successo: grande interesse anche dalle persone che a me non si erano presentate e agli altri sì; grande coinvolgimento nei discorsi successivi; battute rivolte a me per la prima volta. A quanto pareva ero una di loro, avevo studiato, parlavo inglese. La conversazione è proceduta liscia, senza che mi si sottovalutasse più.

La cosa, ovviamente, mi ha fatto sentire di merda. Vedere che davvero rendere esplicita una presunta “capacità mentale” porta a essere considerata di più – e quindi, al pari di – mi ha disgustato. E lo so che sto scoprendo l’acqua calda quando dico che avere dei titoli è valutato positivamente in una società classista. Ma vedere che per non essere discriminata, quando sei disabile, c’è bisogno di sventolare qualcosa – in pratica di vendersi bene – è orribile.

Non farò più capitare il discorso laurea apposta per far sì che una persona abilista mi consideri al suo stesso livello, preferisco di gran lunga essere discriminata che “esibirmi” per forza.

E poi così ci scappa pure il fatto che sono in grado di capire chi NON è abilista.

[Elena]

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