Essere disabile mi porta ad essere spesso arrabbiata. Tipo lo stereotipo della persona disabile dei film, ma non per i motivi dei film.
Sono arrabbiata perché molti spazi in cui vorrei andare non sono accessibili, ad esempio perché manca una rampa. Devo pagare di tasca mia i miei assistenti perché non mi vengono forniti fondi sufficienti. E cavolo, quando apro Facebook mi ritrovo a tradimento un sacco di video e articoli con retoriche abiliste.
In genere come carattere tendo ad essere ottimista, eppure spesso sono arrabbiata. Lo sono per me, per i miei amici e anche per degli sconosciuti disabili di cui leggo sul giornale.
Verrebbe da censurare la propria rabbia, per paura di turbare le altre persone o per evitare che pensino che “ti poni male”.
Il ruolo più socialmente apprezzato e ascoltato per una persona disabile è essere sorridente, fare da esempio per gli altri e parlare di come “superi gli ostacoli”.
Descrivere le ingiustizie arriva ad essere definito “vittimismo” da persone disabili e non.
Succede da sempre, storicamente, quando un gruppo marginalizzato reagisce alle oppressioni, di venire descritto come “esagerato”.
La frase “smettila col vittimismo” è detta per silenziare e colpevolizzare.
Non lasciamoci biasimare per la nostra rabbia. Ovviamente non bisogna lasciarsene consumare, ma di certo sopprimerla può solo farci del male. La possiamo esprimere e trasformare in qualcos’altro: lotta, impegno, arte o espressione di sé, insomma qualunque cosa con cui possiamo sentire tutto l’impatto che può avere la nostra rabbia.
[Maria Chiara]