Maria Chiara ha le braccia incrociate, un'espressione arrabbiata e tre fulmini neri disegnati vicino al viso. Indossa una maglietta nera e shorts di jeans. Dietro di lei c'è una porta marrone e un muro bianco.

La rabbia non va censurata

Essere disabile mi porta ad essere spesso arrabbiata. Tipo lo stereotipo della persona disabile dei film, ma non per i motivi dei film.
Sono arrabbiata perché molti spazi in cui vorrei andare non sono accessibili, ad esempio perché manca una rampa. Devo pagare di tasca mia i miei assistenti perché non mi vengono forniti fondi sufficienti. E cavolo, quando apro Facebook mi ritrovo a tradimento un sacco di video e articoli con retoriche abiliste.

In genere come carattere tendo ad essere ottimista, eppure spesso sono arrabbiata. Lo sono per me, per i miei amici e anche per degli sconosciuti disabili di cui leggo sul giornale.

Verrebbe da censurare la propria rabbia, per paura di turbare le altre persone o per evitare che pensino che “ti poni male”.
Il ruolo più socialmente apprezzato e ascoltato per una persona disabile è essere sorridente, fare da esempio per gli altri e parlare di come “superi gli ostacoli”.

Descrivere le ingiustizie arriva ad essere definito “vittimismo” da persone disabili e non.
Succede da sempre, storicamente, quando un gruppo marginalizzato reagisce alle oppressioni, di venire descritto come “esagerato”.
La frase “smettila col vittimismo” è detta per silenziare e colpevolizzare.

Non lasciamoci biasimare per la nostra rabbia. Ovviamente non bisogna lasciarsene consumare, ma di certo sopprimerla può solo farci del male. La possiamo esprimere e trasformare in qualcos’altro: lotta, impegno, arte o espressione di sé, insomma qualunque cosa con cui possiamo sentire tutto l’impatto che può avere la nostra rabbia.

[Maria Chiara]

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