Scena da Quasi Amici: Driss è salito dietro la carrozzina elettrica di Philippe e si fa trasportare; entrambi sorridono divertiti

“Quasi amici” (titolo originale “Intouchables”), Francia, 2011

Forse il più famoso tra i film sulla disabilità usciti negli ultimi anni, conosciuto e apprezzato anche da chi la disabilità la conosce solo per sentito dire, Quasi amici ha il grande merito di essere uno dei primi film dove il protagonista è disabile e le gags e le scene comiche abbondano, rendendolo accessibile e godibile anche per un largo pubblico.

Ad essere nuovo è l’approccio scanzonato e dissacrante del “badante” (come lo chiama la figlia di Philippe) Driss nei confronti della condizione di tetraplegico di Philippe, l’atteggiamento ironico e irriverente che fa provare simpatia per questo ragazzo (apparentemente) immaturo e irresponsabile che porta la vitalità e l’irruenza della banlieue nel mondo ingessato dell’alta borghesia.

Segnalo tre battute significative, che mi sembra colgano l’essenza di un approccio sostanzialmente positivo nei confronti della disabilità.

La prima è uno scambio di battute tra Philippe e un suo amico a proposito di Driss, a cui l’amico guarda con sospetto per via del suo ceto e della sua fedina penale non proprio immacolata: “Questa gente non ha nessuna pietà”, lo mette in guardia. E Philippe risponde, dando voce a qualcosa di molto sentito tra le persone disabili, ovvero il ripudio di qualsiasi forma di pietismo: “É esattamente questo quello che voglio”.

C’è poi una battuta di Philippe, mentre parla della morte della moglie, che credo assuma una certa importanza in una società in cui la vita di un disabile viene vista con commiserazione (nel migliore dei casi) o con orrore (nei casi peggiori): “Il mio vero handicap non é la paralisi. É non avere più lei”.

E per finire, una considerazione di Driss a proposito di Eléonore, con cui Philippe ha una relazione epistolare: “È una originale. Se ne fregherà della sedia a rotelle”.

Il film non é comunque scevro da imperfezioni (senza contare la scelta, piuttosto discutibile, dei produttori italiani di tradurre il titolo originale “Intouchables” con “Quasi amici”), anzi i luoghi comuni e le generalizzazioni non proprio positive nei confronti delle persone disabili non mancano. Chiunque abbia una conoscenza non superficiale della disabilità si può rendere conto facilmente di alcune scene del film che si discostano da una rappresentazione realistica.

Il caso che più salta all’occhio è in una delle prime scene, quando Driss, senza che nessuno gli abbia fra l’altro mostrato le mosse giuste da fare, solleva Philippe dal letto per metterlo sulla carrozzina. Distratto e noncurante, il giovane non fa nulla per metterlo in sicurezza, e il povero Philippe rischia di cadere a faccia in giù. La cosa strana è che quest’ultimo non protesta né mostra segni di paura o fastidio. Rimane impassibile e si limita a commentare blandamente il fatto che cade se non viene sostenuto: “Eh sì, é uno dei miei vizi…”. Onestamente, non credo si debba essere disabili per capire che quando una persona che non si può muovere vede avvicinarsi pericolosamente il pavimento, a meno che non sia un esperto di tecniche zen, come minimo lancia un urlo di avvertimento. Poco realistico, insomma.

C’è un’altra scena che convince poco. È notte, i due amici (senza “quasi”) si scambiano confidenze, e Driss dice a Philippe, con il suo solito modo franco e schietto, che se gli capitasse un incidente come il suo si ucciderebbe. Ora, l’idea é non poco diffusa, secondo la mia esperienza, tra i cosiddetti “normodotati”: la vita da paralizzati e/o in carrozzina appare a volte talmente inimmaginabile ed insopportabile ad uno sguardo esterno da rendere preferibile la morte. Tra le persone che lo pensano, lo ammette solo chi é più franco, e Driss é decisamente uno che dice quello che pensa. Il problema non sta quindi nell’affermazione di Driss quanto nella risposta che gli dà Philippe: “Anche questo é difficile per un tetraplegico”.

Tralasciando il fatto che il contenuto della frase è innegabilmente vero, mi sembra una replica banale e focalizzata su un punto di vista esterno alla disabilità, il punto di vista, in sostanza, di chi ritiene una vita in carrozzina meno degna di essere vissuta. La risposta amara di Philippe appare contraddittoria rispetto all’approccio “fresco” e ai toni scherzosi del film, un film che in fondo non fa che mostrarci come anche la vita di chi è paralizzato possa essere gratificante da molti punti di vista. Pur senza demonizzare, quindi, la risposta di Philippe, la trovo un po’ deludente e poco originale nel contesto di un film come questo che invece è innovativo sotto molti aspetti. Sono convinta che esista una sorta di “orgoglio disabile” che accomuna la maggior parte delle persone che hanno qualche menomazione o deficit. É quell’orgoglio che fa provare un moto di ribellione ogni volta che viene portata avanti, in maniera più o meno esplicita, l’idea che la vita dei disabili abbia meno valore o anche solo che sia necessariamente meno felice. É quell’orgoglio che provoca un moto di ribrezzo istintivo di fronte ad espressioni come “costretto sulla sedia a rotelle”. É quell’orgoglio che viene offeso da scene come questa, scene che incarnano sì un sentire comune, ma un sentire superficiale e approssimativo, e di certo non quello del disabile medio.

Perché Philippe, con la sua acuta ironia, la sua relazione con Eléonore e la sua impeccabile organizzazione del personale che lo assiste (la scena dei colloqui d’assunzione è piuttosto “professional”), non sembra proprio uno che non accetta la propria situazione e si lascia andare. E allora, molto semplicemente, non è credibile che non smentisca in qualche modo l’amico e gli dia invece una risposta così amareggiata. In un film che avesse voluto essere davvero innovativo e far riflettere sul serio, la battuta di Philippe sarebbe stata qualcosa sul fatto che la vita può rivelarsi bella anche quando non te lo aspetteresti.

Il merito principale del film sta dunque nel modo scanzonato e dissacrante con cui si racconta la disabilità. Non sono tanti i film concepiti come commedia che abbiano come (co-) protagonista un tetraplegico. Attraverso la comicità, lo spettatore viene coinvolto e sensibilizzato, anche solo semplicemente perché è messo di fronte ad un modo “diverso” di vivere la vita di tutti i giorni, e ne scopre poi la sostanziale normalità.

Dopo aver visto un film come questo l’individuo medio guarderà i disabili con occhi diversi, in modo più “normale”, con meno timore reverenziale e più senso dell’umorismo. Ce ne sono pochi di film che hanno questo effetto, quindi possiamo anche “perdonare” alcune delle sue pecche.

Certo, la casa lussuosissima di Philippe e il fatto che possa permettersi di acquistare con nonchalance un quadro da 41.000 euro non lo colloca esattamente nella categoria del “disabile medio”, ma il film é tratto da una storia vera, e su questo punto é “inattaccabile”. Diciamo che sarò più soddisfatta quando troverò un film che affronti con ironia la vita di una ragazza disabile e non di un uomo cinquantenne (avete notato quanto sono poche le donne disabili nei film rispetto agli uomini disabili?), che sia disabile dalla nascita e non per colpa di un incidente, e che abiti in un monolocale e non in una villa coi rubinetti d’oro.

[Maria Chiara]

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