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Incontro con Rita Skeeter

Avevo dieci anni quando la dottoressa che seguiva il mio “caso” disse ai miei genitori che non mi vedeva da un po’, e che quindi mi voleva incontrare. Io non avevo capito esattamente perché, sapevo solo che era qualcosa di propedeutico al continuare a ricevere assistenza personale a scuola.

L’assistenza a scuola era un diritto per cui i miei si erano sempre battuti molto, tanto che sapevo che a forza di litigare ero la bambina che, a parità di bisogni, riceveva più assistenza di tutti gli alunni disabili del circondario. Sapevo che dovevo incontrare questa signora per un’altra valutazione dei miei bisogni. Perché sappiamo tutti che la disabilità richiede verifiche continue sulla sua esistenza, no?

I miei avevano ottenuto che la dottoressa venisse a scuola, e questo era un bel traguardo, considerato che altrimenti mi sarei dovuta spostare apposta da casa.

Però, quando la bidella entrò a dire “Elena, puoi uscire un attimo ché è arrivata la signora?” mi staccai dal banco malvolentieri, perché c’era una lezione interessante di italiano. Uscendo, scherzai con i miei amici imitando un eroe drammatico che va al patibolo.

Fuori dalla classe mi aspettava la dottoressa: lei si ricordava vagamente di me e io per niente di lei. Andammo in una stanza vuota lì vicino, che era un archivio pieno di tomi vecchi che puzzava tantissimo di polvere, e chiudemmo la porta con la mia assistente che mi aspettava fuori. Sembrava un po’ quel capitolo di Harry Potter in cui Harry viene trascinato da Rita Skeeter nello sgabuzzino delle scope. A pensarci ora, non lascerei una bambina di dieci anni da sola con un estraneo: non perché allora sia successo assolutamente niente, ma perché questa fiducia totale nei professionisti della disabilità, vedendola col senno di poi, mi spaventa un po’.

La dottoressa tirò fuori due tipologie di “esercizio”, chiedendomi di sceglierne uno. Il primo consisteva nell’abbinare formine geometriche corrispondenti, il secondo nel completare brevissime storielle. Storcendo il naso per la prima opzione, indicai la seconda, che mi sembrava la meno peggio. “Ah, immaginavo che avresti scelto questa, l’altra è troppo facile”, disse la dottoressa. Se il mio naso non fosse già stato storto, l’avrei storto ancora. Se volete far sentire una bambina sotto esame, questo è un buon modo. Inoltre i complimenti non voluti da un’estranea sulla mia presunta intelligenza anche no, specialmente se il test che mi proponi è quello che è.

Così cominciammo. Fu una mezz’ora lunga e estremamente noiosa, tanto che mi veniva da ridere dell’assurdità della cosa e la dottoressa mi guardava di sotto in su, stranita.

Vi faccio un esempio di una scenetta che mi ricordo: “Torni a casa da scuola e tua madre di accoglie con un sorriso strano. Cosa sta per dirti?”

“Che andiamo a Disneyland!”, risposi io a caso.

Dopo una sequela infinita di scenette del genere da completare, la dottoressa mi chiese se mi trovavo bene in classe, domanda che mi parve stranissima e fuori luogo.

“Hai una migliore amica?”, continuò. Io risposi di sì.

“Ah, chi”?

“Vuole il nome?” chiesi, sinceramente curiosa.

“Ah no no, volevo dire, cosa la rende la tua migliore amica?”

“…Siamo molto diverse quindi ci completiamo e andiamo d’accordo”, risposi, riciclando quello che gli adulti dicevano di noi. Non volevo certo andare nel dettaglio della nostra amicizia con la prima arrivata.

Poi la dottoressa mi chiese dei miei hobby. Mi ricordo solo che le dissi che mi piaceva leggere. “Ah, cosa stai leggendo?” “La bambinaia francese, di Bianca Pitzorno”, risposi, contenta che per la prima volta la conversazione si spostasse da interrogatorio a scambio tra pari. “È una specie di continuo di Jane Eyre di Charlotte Brontë, è bellissimo”. Lei non conosceva Charlotte Brontë, e io, da quella stronzetta snob che ero, la giudicai male. Ora sono cambiata, giuro.

Le chiesi che cosa stesse leggendo lei, ma lei rispose che non le piaceva leggere e il discorso cadde.

Per il gran finale, la dottoressa prese in mano una penna. “Allora Elena, facciamo finta – noi sappiamo che non è vero, eh, e che non esistono le bacchette magiche – però facciamo finta che questa sia una bacchetta magica. Quali sono i tuoi tre più grandi desideri nel cassetto?”

Vuoto totale, ovviamente. Elena, pensa alle prime tre cavolate che ti vengono in mente, riflettei tra me e me.

“Allora” cominciai “viaggiare… Poi… Scrivere un libro di mitologia perché mi piace molto la mitologia greca… E boh, risolvere il problema della povertà”

La dottoressa sembrò contenta delle risposte, e si premurò di informarmi del fatto che ora con la tecnologia era possibile visitare i luoghi virtualmente. Forse non esattamente la cosa migliore da dire a una bambina disabile che esprime il desiderio di viaggiare.

Fu noiosissimo, ma fu l’ultimo incontro di questo tipo che io abbia mai fatto con lei.

[Elena]

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