Persone disabili e “distruzione” della natura: qualche riflessione partendo dalla vicenda Val di Mello

Due foto di Elena nello stesso bosco di Chiara con una maglia nera con le stelline che tiene in mano una ghianda, tipo Scrat

Nelle foto vedete due esemplari di persone in carrozzina in un bosco, per tutti quelli che “Ma che cosa ci vanno a fare i disabili nei boschi?”

Lo sapevate che le persone disabili stanno per devastare la natura grazie alla loro incredibile influenza sociale? O almeno è quello che ho letto in questi giorni a proposito della realizzazione di un sentiero fruibile per le persone disabili in Val di Mello, vicino a Sondrio.

Prendo questo esempio per riflettere più in generale su un certo tipo di narrazione che è molto diffusa quando si parla di disabilità e natura: l’accessibilità vista come devastazione.

La narrazione è questa: rendere accessibili le bellezze naturali distruggerebbe una presunta natura incontaminata.

Questo è un discorso sbagliato su più livelli. Innanzitutto, se applichiamo a tappeto l’idea che la natura debba rimanere “incontaminata” non dovremmo fare la maggior parte di quello che facciamo come società, perché il consorzio umano si basa sull’uso delle risorse naturali.

Nello specifico, chi decide cosa vale “l’impatto” sulla natura e cosa no? Cosa è essenziale e cosa no? Sciare, ad esempio, vale più dell’accedere a una valle? Perché non so se è chiaro, ma la natura dove sorge un impianto sciistico prima era “incontaminata” (termine impreciso, tra l’altro, perché pochissime zone del mondo non hanno sperimentato l’intervento umano).

Chi decide che l’impatto di un complesso sciistico è “accettabile”? E le funivie? E l’impatto (anche sonoro) dei cellulari degli escursionisti? E i cartelli che indicano la via per evitare che gli escursionisti si perdano? E i sentieri nei boschi? Cosa cambia con le passerelle per carrozzine o altri provvedimenti per l’accessibilità?

Forse cambia che queste ultime interessano una categoria marginalizzata e con poco peso sociale.

Vogliamo ragionare su cosa vuol dire “col minor impatto possibile”? Facciamolo, perché è fondamentale, ma senza marginalizzare ulteriormente una categoria. Senza renderla capro espiatorio e senza costruire i corpi disabili come minaccia all’ambiente naturale “incontaminato”.

Concettualmente ed esteticamente, l’impatto di provvedimenti fatti bene non è diverso da quello che già si fa con in mente le persone non disabili. Demonizzare l’impatto – minimo – dell’accessibilità è un doppio standard tra i bisogni delle persone disabili e di quelle non disabili. È questo doppio standard che ci rivela, implicitamente o meno, che in fondo l’idea al cuore del discorso è la svalutazione delle persone disabili.

Un ragionamento che ho letto più volte in questi giorni è il seguente: “Non tutte le persone non disabili riescono a scalare il Monte Bianco, ma mica ci vogliono andare a tutti i costi. Allo stesso modo le persone disabili non dovrebbero andare nella natura in cui naturalmente non riescono a accedere”. Insomma, sarebbe sbagliato il concetto stesso di rendere accessibile la natura, e le persone disabili si dovrebbero “accontentare” e “accettare i limiti del proprio corpo”.

La logica per cui ognuno debba “prendere atto dei limiti del proprio corpo” è una logica suprematista che dà valore a alcuni corpi rispetto ad altri (E mi ricorda frasi tipo “I figli li fanno un uomo e una donna! Le persone gay devono accettare i propri limiti”).

La percezione distorta e gonfiata delle persone disabili che vanno a rovinare la natura mi ricorda anche i meccanismi dei discorsi sull'”invasione etnica”. Nella realtà, organizzare una passeggiata accessibile nella natura è complicatissimo. Già, perché spesso in questi discorsi roboanti sulla natura “distrutta” dall’accessibilità ci si dimentica che la scelta per le persone disabili è limitatissima. Ad esempio chi è in carrozzina sa bene che la possibilità di passeggiare in mezzo alla natura sono risicate.

Quello che sfugge è che ciò che chiedono le persone disabili non è affatto un accesso a tutti i costi, ma un range di scelta per la fruizione della natura. Un accesso laddove possibile (ed è possibile in un sacco di casi!) e laddove il costo per la natura sia sostenibile, ma in cui l’idea di sostenibilità non sia viziata da concezioni abiliste.

Ho letto anche che gli ambienti “adatti” alle persone disabili sarebbero le città. Come dire, già è tanto che gli rendiamo accessibili quelle, ma adesso pure la natura no, dai. Insomma, la cara vecchia idea che ci siano ambienti adatti e non adatti a certe persone, dove, guarda caso, le persone che ci si aspetta stiano confinate sono quelle disabili.

Un problema nello specifico della questione Val di Mello è quanto sia normalizzato il discorso sulla presunta strumentalizzazione: gira cioè l’idea per cui le persone disabili siano una scusa per favorire altri interessi non legati alla disabilità, per “far passare” i lavori e renderli accettabili. In realtà è molto comune che un progetto o un’iniziativa di qualunque tipo legato alle persone disabili venga definito strumentalizzazione, il che rivela la concezione abilista delle persone disabili come prive di volontà, oggetti usati da qualcuno.

Non può esistere una giustizia ambientale che esclude una categoria di persone.

Per approndire: Alison Kafer in Bodies of Nature – The Environmental Politics of Disability, in Feminist, Queer, Crip

[M. Chiara]

N.d.r. Ci dicono che il progetto di accessibilità è dell’associazione www.dappertutto.org

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