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A proposito di Alfie Evans

Alfie Evans è morto stanotte.

Ho letto parecchio della sua vicenda e, come spesso accade con gli argomenti di bioetica, oltre alle rare opinioni davvero critiche e indipendenti, molte appartengono a due estremi allineati a livello politico. Da una parte gli estremisti difensori della Vita con la V maiuscola, che sono anche quelli che vorrebbero vietare l’aborto a tutti e che sono convinti che “l’uomo non si deve mettere contro Dio” sia un argomento valido e razionale da usare in una discussione. Dall’altra quelli che si ergono a paladini del progresso, che hanno sparato giudizi sui genitori di Alfie oppure ne hanno parlato con malcelato paternalismo, lasciando basiti per la freddezza e l’arroganza, ma soprattutto per l’ignoranza, con cui parlano.

Da troppe poche parti si sente parlare di abilismo. E invece la vicenda della famiglia Evans ne è intrisa.

Il problema stava nel considerare la vita di Alfie una non vita, una sofferenza peggiore della morte, e nell’imporre questa visione ai suoi genitori: il nocciolo dell’abilismo nella questione sta nel concetto “meglio morto che così malato, così disabile”, che diventa concetto imposto dallo Stato.

Per i medici di Alfie, il suo danno al cervello significava che non valeva più la pena di supportare la sua vita; che la sua qualità della vita era talmente bassa che non valeva la pena continuare.

Ora, si potrebbe discutere a lungo sul fatto che la nostra conoscenza del cervello è ancora agli albori, su casi come quello di un bambino nato con solo il due percento di tessuto cerebrale normale, che ora, inspiegabilmente, ha un cervello del tutto funzionante. O sul fatto che pazienti senza corteccia cerebrale possono comunque sapere chi sono, fare battute e riconoscersi in foto. O che alcuni bambini nati con idranencefalia possono ridere e piangere, capire la differenza tra persone conosciute ed estranei, e preferire alcuni tipi di musica.

Non è mia abitudine sputare sulle competenze dei medici o di qualunque professionista, che solitamente do per scontate, ma è un dato di fatto nella storia della medicina l’elevato numero di prognosi infauste che si rivelano poi sbagliate o incomplete: molte persone disabili sanno bene che le prognosi fatte loro da piccoli erano spesso più infauste di quello che poi si sono rivelate.

Non ci era possibile fare dei veri pronostici sulla vita di Alfie, perché la sua malattia non aveva una vera e propria diagnosi.

Ma non è questo il punto. L’aspetto problematico, banalmente, è che la decisione del valore di una vita non deve spettare a medici o giudici. Il valore della vita, essendo qualcosa di estremamente soggettivo, può essere deciso solo dalla persona stessa, oppure dai tutori come nel caso di Alfie, non certamente dallo Stato.

Dal punto di vista dell’etica la questione in realtà è semplice.

Siamo tutti d’accordo sul fatto che non è etico non supportare la scelta di un paziente di terminare la propria vita perché non la ritiene una vita degna di essere vissuta. Allo stesso modo non è etico non supportare la vita di pazienti che invece vogliono viverla (o non supportare la volontà in tal senso di genitori o tutori).

Se anche poi questo bambino fosse stato comunque destinato a morire tra poco tempo, è stato abilista non permettere ai genitori di decidere quando dovesse morire loro figlio. Anche questo è supporto ed accompagnamento etico alla morte. Non si può, se si vuole essere coerenti, sostenere una battaglia senza sostenere anche l’altra.

Non si può parlare della vicenda di Alfie Evans senza parlare di abilismo, ed è doveroso riflettere su alcune questioni.

Non se ne può parlare con una certa cognizione di causa senza considerare la terribile storia della medicina occidentale quando si tratta del valore delle persone disabili.

Non se ne può parlare slegandola dalla consapevolezza che molti bioeticisti contemporanei sostengono l’idea di uccidere attivamente pazienti disabili.

Chi usa con leggerezza espressioni come “evitare la sofferenza”, “trattamento compassionevole”, “evitare cure gravose”, e “il miglior interesse del paziente” è bene che sia reso consapevole del fatto che la storia dell’eugenetica è costellata di queste espressioni. Sono parole da pesare bene prima di usare, perché portano il peso della storia, sono cioè connotate storicamente di significati pesanti: le stesse esatte parole usate per Alfie sono state usate nei programmi eugenetici europei e americani di 800 e 900, di cui l’Aktion T4 di Hitler che ha fatto 300.000 vittime disabili è stato il più terribile ed organizzato.

La famiglia di Alfie si è trovata a dover difendere il diritto del bambino alla nutrizione e all’idratazione, oltre che il proprio diritto alla custodia del figlio.

Queste procedure non possono in nessun modo plausibile essere descritte come “accanimenti terapeutici”. Assicurarsi che un bambino abbia una idratazione e nutrizione adeguata non è una procedura medica. È un atto di civiltà umana di base.

La svolta inaspettata della vicenda, cioè il fatto che Alfie ha continuato a respirare autonomamente senza respiratore per cinque giorni, ha reso ancora più assurda la pretesa dei medici di “interrompere un trattamento gravoso e inutile”.

Se siamo d’accordo sul fatto che tutte le persone hanno uguale dignità e dovrebbero avere pari diritti alla loro parte di cure mediche, i medici hanno il dovere di proteggere la popolazione più vulnerabile che è più a rischio di venire marginalizzata, evitando discriminazioni la cui sistematicità è documentata, se solo uno si informasse del trattamento delle persone disabili nel settore medico.

Si è sostenuta invece l’idea che alcuni bambini con disabilità significative non sono degni di vivere.

Il Regno Unito ora ha stabilito il chiaro e spaventoso precedente per cui ai genitori che hanno un diverso concetto dal loro di quale tipo di vite sia degna di vivere potrebbero essere tolti i loro figli e lasciati morire – nel “miglior interesse dei bambini.” E questo caso è facilmente estendibile a persone di ogni età.

È fondamentale applicare nella bioetica la lente della giustizia sociale, formare un approccio bioetico che sia coerente con la giustizia nelle cure mediche e che vada ben oltre la tradizione cattolica.

È assurdo ridurre il sostegno ai genitori di Alfie a una questione che riguarda solo i cattolici, è un’indegna operazione strumentale tanto quanto, dall’altra parte, i ministri che hanno concesso la cittadinanza italiana al bimbo solo per mettersi in bella mostra.

Il governo inglese aveva il dovere di usare le sue risorse per supportare chi ne aveva più bisogno. Per come sono andate le cose, invece, penso che per quanto riguarda i diritti ci abbiamo perso tutti da questa vicenda.

Credo che la cosa che dovrebbe colpirci più di tutto, per il momento, e di cui invece si parla troppo freddamente, è che c’era un bambino che, oltre ogni aspettativa, è sopravvissuto ben più del tempo prospettato senza respiratore, che tra parentesi non è un oggetto da demonizzare ma un ausilio medico come tanti altri e che migliora la vita.

E che in questi ultimi cinque giorni questo bambino è vissuto con un bisogno disperato del suo respiratore.

[Maria Chiara]

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