Agli educatori che si stanno mobilitando in questi giorni contro le assurde condizioni lavorative e di paga.
Le vostre istanze sono sacrosante. Ma per favore non buttate giù le persone disabili per rafforzare le vostre motivazioni.
Ho letto molti articoli, post e discussioni di educatori che denunciano come si lavora alle dipendenze delle cooperative. Sono contenta perché è una situazione incredibile che va avanti da tempo, ma c’è qualcosa di molto disturbante nel modo in cui viene spesso portata avanti la narrazione.
Innanzitutto però due parole su gran parte delle cooperative che gestiscono i servizi per le persone disabili – ed è un discorso che in realtà si estende anche a servizi per altre categorie “vulnerabili” gestiti da cooperative.
Mi ricordo benissimo che quindici anni fa rimasi allibita quando chiesi alla mia assistente se venisse pagata quando non andavo a scuola e lei mi rispose di no, che per essere pagata doveva prendere le ferie obbligatorie. È ancora così. Qualche anno dopo mi informai sullo stipendio, ed era uno spianto pure lì. Le ore di lavoro tra l’altro cambiano di anno in anno, e alcuni lavorano per pochissime ore settimanali.
Personalmente poi avevo problemi anche con l’approccio della cooperativa: mi fu riferito che la mia veniva dipinta come famiglia strana e insistente, perché chiedeva (e otteneva) tutte le ore di assistenza che mi servivano. Molte famiglie venivano presentate come problematiche: buona mossa, ammetto che mettere in guardia gli assistenti/educatori contro le famiglie è un buon modo per far sì che non si alleino.
Ma torniamo a questi giorni: leggo cose disturbanti scritte dagli educatori. Ovvio che su Facebook si scrive di tutto. Ma fa comunque stremolire quando lavorare con le persone disabili viene definito “una missione”. È quasi buffo, visto che definirlo una sorta di missione è proprio la motivazione che le cooperative usano per sfruttarvi, per farvi accettare paghe basse e incertezza costante. Per il bene degli “utenti” bisogna fare dei sacrifici a livello contrattuale, è questo ciò che vi viene detto. Lo spiega bene il libro “Educatori: sfruttati, malpagati, ricattati”: si fa passare che servono persone speciali, quasi martiri, per fare questo lavoro. Ne risulta un’immagine in cui le cooperative sono in costanti ristrettezze economiche e che devono far andare avanti la baracca, baracca che ovviamente gestiscono con spirito caritatevole: peccato che in realtà si lucra sulla vostra pelle e sulla pelle delle persone disabili.
Tra l’altro mi succede che le persone che seleziono quando cerco nuove assistenti personali mi parlino di “missione”, in particolare capita da chi ha un’educazione formale in ambito di assistenza alle persone disabili. Questo approccio è tossico e tradisce una visione tragica della disabilità: assistere, nei vari modi, le persone disabili è solo un lavoro da svolgere – come tutti i lavori – con cura e professionalità, semplicemente a maggior ragione perché si ha diretta responsabilità e impatto sulla vita delle persone.
Vedo anche commenti di educatori/assistenti in cui si descrive in dettaglio quanto sia pesante il lavoro, quasi a voler giustificare le richieste di migliori condizioni lavorative. Leggo che il ragazzo disabile fa questo e quello, sputa, corre, vomita, oppure che ha bisogno di essere sollevato e pesa, e che gli educatori invece fanno quello e quell’altro (e ne viene fuori un quadro a metà tra madre Teresa di Calcutta e Giovanna D’Arco).
Ma non c’è bisogno di insinuare che il lavoro sia degradante – come ho visto scritto – per chiedere condizioni lavorative migliori. Sottolineare la pesantezza dei bisogni assistenziali delle persone disabili con dovizia di particolari è abilista: se avessi letto cose del genere su di me da adolescente probabilmente ci sarei rimasta piuttosto male. Informazione bonus: gli adolescenti disabili di oggi hanno una connessione internet.
E poi vedo imperare un approccio medicalizzante, dove spesso si parla di integrazione: cose tipo “senza di noi non ci sarebbe nessuno a far integrare i vostri figli”.
Perché, uno, siamo solo figli di qualcun altro. Anzi, “figli con la 104”, come ho letto in un cartello di protesta pochi giorni fa. Mai alleati, per carità. E due, la parola “integrazione” speravo l’avessimo lasciata negli anni novanta. Agli alunni disabili non serve integrazione, ma facilitazione. È possibile evitare di far trasparire l’idea che gli studenti disabili non siano studenti come gli altri?
Smettete di sminuire le persone disabili? Siamo dalla stessa parte. Almeno credo.
Nota: Ho usato “educatore” e “assistente” quasi in modo intercambiabile. A scuola avevo delle persone che mi aiutavano per le cose fisiche. Inizialmente avevano i background più disparati, poi quando facevo le superiori la cooperativa rese obbligatorio per le nuove assunzioni la laurea in educatore o simili. Allora le mie assistenti presero tutte la dicitura “educatrice”.
Mi dava molto fastidio quando veniva detto “l’educatrice di Elena”. Io oppure l’assistente correggevamo la cosa, innanzitutto perché il loro ruolo non era quello. Ma anche perché, se sei disabile, per non essere discriminata dagli insegnanti aiuta molto impegnarsi a spuntare due caselline: essere secchioni e rendere lapalissiano che la persona è lì per aiutarti solo a livello fisico.
[Elena]